Sul mito del buon selvaggio

di Giulia Sablone

 

Il mito del buon selvaggio, nella filosofia elaborata da Jean Jacques Rousseau, spiega la sua convinzione che l’uomo in origine fosse buono e pacifico e che solo successivamente, corrotto dalla società e dal progresso, diventasse malvagio.

Nonostante l’espressione “buon selvaggio” fosse già comparsa in passato, la rappresentazione idealizzata di un uomo buono e pacifico fu un aspetto caratteristico del sentimentalismo del secolo successivo.

Il concetto di “buon selvaggio” si rifà all’idea di un’umanità sgombra dalla civiltà: ovvero, senza regole.

Nel primo decennio del Settecento, il filosofo Anthony Shaftesbury incitava «a cercare quella semplicità dei modi, e quel comportamento innocente, che era spesso noto

ai selvaggi; prima che essi fossero corrotti dai nostri commerci».

Nonostante Shaftesbury fosse contrario alla linea del pensiero del peccato originale, di cui parla la Chiesa, secondo me lui ci si accosta comunque molto.

La sua riflessione sulla libertà dei selvaggi rimanda alla rovina dell’uomo, a seconda dei criteri di giusto e sbagliato chiesti da Dio. 

Intendo dire che il giusto appartiene all’idea del selvaggio innocente, come lo intendeva Shaftesbury; mentre il concetto contrario, ovvero andare contro la richiesta di Dio, è sbagliato, essendo un atteggiamento malvagio.

Il concetto di “buon selvaggio” ha legami con il Romanticismo e con la filosofia romantico-illuminista di Rousseau.

Del mito del buon selvaggio si parla in numerosi trattati di viaggi di esplorazione nelle terre australi, dove nè la società nè la cristianizzazione si erano ancora diffuse: ad esempio, nell’isola di Tahiti. Gli abitanti di quelle terre sembravano avere, agli occhi degli esploratori, una cultura paradisiaca, venuta dell’Eden. 

Intorno al XV secolo, alcuni Stati europei iniziarono ad espandersi oltremare, inizialmente in Africa, in seguito in Asia e infine nelle Americhe. Generalmente cercavano risorse mineraie come argento e oro, terre per coltivare riso e zucchero per sfamare la comunità,

e manodopera per lavorare nelle miniere e nelle piantagioni.

In molti casi i colonizzatori uccisero i popoli indigeni, in altri casi la gente veniva sfruttata per lavori dove serviva forza fisica.

Gli europei, sentendosi dominatori e in qualche modo superiori, iniziarono a trattare i selvaggi come esseri inferiori socialmente e psicologicamente, e non li trattavano al loro pari né politicamente né economicamente.

Questa mentalità, erroneamente da loro stessi autolegittimata, permise la giustificazione del genocidio, dell’etnocidio e della dominazione europea. Il colonialismo europeo e l’imperialismo, di conseguenza, coinvolsero i popoli dell’Asia, dell’Africa e dell’Oceania.

L’idea del “buon selvaggio”, ben definita da Rousseau nel Discorso sull’origine della disuguaglianza, individua i veri valori di uno stile di vita che dovrebbe essere mondiale.

Le qualità del “buon selvaggio” sono molte, tra cui:

– vivere in armonia con la Natura;

– generosità ed altruismo;

– innocenza;

– incapacità di mentire, fedeltà;

– salute fisica;

– disdegno della lussuria;

– coraggio morale;

– intelligenza “naturale”, che viene dal cuore ed è saggezza innata e spontanea.

Jean-Jacques Rousseau è colui che ha contribuito più di altri a definire la figura del “buon selvaggio”. La frase iniziale dell’Emile ou De l’éducation di Rousseau era: «Ogni cosa è buona mentre lascia le mani del Creatore delle cose; ogni cosa degenera nelle mani dell’uomo».

La concezione esposta è rintracciabile anche in altre sue grandi opere: il Contratto sociale, il Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini, il Discorso sulle Scienze e le arti e in altre opere del filosofo svizzero.

Rousseau vedeva una divaricazione sostanziale tra la società e la natura umana, e affermava che l’uomo venisse corrotto dalla società; vedeva questa come un prodotto artificiale nocivo per il benessere dei cittadini.

Nel Discorso sull’origine della disuguaglianza illustrò il progresso e la degenerazione dell’umanità da un primitivo stato di natura sino alla società moderna. Lui pensava che gli uomini primitivi fossero diversi dagli animali perchè i primi avevano la possibilità di perfezionarsi, i secondi no. I primitivi erano dominati dall’impulso di autoconservazione (il rispetto e l’amore verso sé stessi) e da una spontaneità naturale alla compassione e alla misericordia verso i loro simili. 

Quando furono create le prime comunità seguì una trasformazione sociale profonda.

In seguito alla nascita della proprietà privata, ci furono conflitti tra chi aveva poco, molto o nulla, riguardo i vantaggi dell’agricoltura e della metallurgia, della divisione del lavoro. Nacquero così le caste sociali lavorative, alimentando il sentimento di invidia tra le persone. 

Le conseguenze di queste azioni, secondo Rousseau, furono che il primo Stato fosse una forma di contratto sociale suggerito dai più ricchi e potenti. 

Secondo il mio punto di vista, questo fu il primo passo verso la nascita del capitalismo.

Tramite il contratto sociale, che è la base della nascita di una società, venne istituzionalizzata la diseguaglianza.

Mi piace chiudere la mia riflessione con la citazione di una frase di Rousseau, tratta dalla sua opera Le confessioni, mentre risponde a un suo contemporaneo: «Poiché sono più di lui autorizzato a contare e pesare i mali della vita umana, ne feci un esame equilibrato e gli provai come di tutti questi mali non ve ne sia uno solo imputabile alla Provvidenza o che non abbia la sua matrice nell’abuso compiuto dall’uomo delle sue facoltà anziché nella natura stessa».