I coccodrilli piangono il 25 novembre

Di decostruzione della (cattiva) narrazione sulla violenza di genere.

I coccodrilli sono rettili diapsidi e possiedono il morso più potente mai misurato in natura. La loro alimentazione è molto varia, ma restano animali carnivori. Noti nell’immaginario comune perché si dice che piangano mentre mangiano la propria preda, come a voler esplicitare il pentimento di averla uccisa, recenti studi hanno scoperto che tale pianto cade – secondo regolarità annuale – proprio il 25 novembre. In questa data, i coccodrilli indossano le vesti di testate giornalistiche, programmi televisivi e istituzioni che, in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, si lanciano nella presentazione di articoli e servizi in cui piangono la morte di una donna ogni tre giorni e si interrogano sul perché avvenga. Per loro sfortuna, la scienza ci informa che i coccodrilli lacrimano, talvolta anche in modo vistoso, per motivi meramente fisiologici: le loro lacrime hanno principalmente lo scopo di ripulire il bulbo oculare, proprio come gli enti tentano di ripulire la propria immagine dal sessismo, dalla misoginia e dalla violenza con una singola fava.

Un messaggio a questi enti: risparmiateci le vostre lacrime di coccodrillo.

Programmi televisivi che fino a ieri sputavano sentenze lapidarie sulle donne, di colpo diverranno loro alleati. Giornali che la settimana scorsa riportavano “delitti passionali”, oggi ci ricorderanno di quanto l’amore sia diverso dalla violenza. E se, da una parte, la maggior attenzione posta verso tematiche così urgenti è essenziale, dall’altra invece duole denotare una cattiva e fallace narrazione della violenza di genere, di cui si servono diversi giornalisti e giornaliste.

Ecco che, nella lutulenta palude dei coccodrilli, si vedono spuntare titoli scabrosi di narrazioni favoleggianti e romanticizzate su fatti che nulla hanno di romantico. In un articolo de “La Repubblica” dall’inviata Brunella Giovara sul caso di Chiara Ugolini si legge: “Bella, e impossibile”; “bisogna pensare a questa specie di scimmia cattiva”. E ancora, “gli diceva solo ciao, mai niente più”. Ovviamente nell’articolo non figura mai la parola “femminicidio”, che deve essere molto indigesta se resta serrata tra le dita e si strozza nella gola di tanti, troppi giornalisti e giornaliste che prediligono invece la narrazione morbosa dell’omicidio di una donna.

Proseguendo nella lettura, l’irrilevante descrizione bucolica e rurale del paesaggio lascia spazio a un’ancor più marginale narrazione romantica e pietista, volta a tracciare un quadro della vittima per cui la morte proprio non se la meritava, come se esistessero vittime che, invece, ne sono meritevoli. Concentrarsi sull’aspetto fisico, descrivere uno stile di vita sano ed equilibrato, porre l’accento sulle virtù di una ragazza per fugare i dubbi circa possibili provocazioni e descrivere l’assassino come una scimmia cattiva, o perfino come un “padre di famiglia” e un “amante dei motori”, anziché come un criminale sono parte di una narrazione distorta dell’ennesimo femminicidio.

E anche chi tenta di tirarsi fuori da questa palude viscosa e soffocante spesso ne esce talmente corrotto da non rendersene conto. È il caso degli autori dei poster appesi in giro per le strade delle città che riportano scritte come: “Se resti in silenzio, stimoli il carnefice”; “Ammettere di avere un problema è il primo passo per risolverlo”; “Non soffrire in silenzio”. Chi mai penserebbe di scrivere “Se apri una gioielleria, stimoli i ladri”? E perché si chiede alle donne di risolvere i loro problemi, come il silenzio? Perché è così difficile ammettere che non è il silenzio, scambiato per mancata risolutezza d’animo, il problema?

Queste affermazioni infelici sono ovviamente accompagnate da foto di volti di donne tumefatti, perché finché non si giunge a essere sfigurate per la vita, non si è meritevoli di essere credute o tutelate.  

Purtroppo però, il sessismo è un pensiero subdolo e trasversale, oltre che un bias cognitivo che appartiene a tutti e a tutte; perciò, a perpetrare la favola in cui la vittima si fa carico di più colpe del suo carnefice non sono dunque solo gli uomini. Il 16 settembre 2021, la giornalista Barbara Palombelli, in diretta nazionale a Forum su Rete 4, incalza un commento sulla questione “femminicidi”: “Qui però parliamo della rabbia tra marito e moglie. Come sapete, negli ultimi sette giorni ci sono stati sette delitti. Sette donne uccise, presumibilmente da sette uomini. A volte è lecito anche domandarsi: questi uomini erano completamente fuori di testa, completamente obnubilati oppure c’è stato un comportamento esasperante e aggressivo anche dall’altra parte?”.

Le proposizioni coordinate disgiuntive non sono scelte casualmente, ma presentano gli unici scenari possibili secondo l’immaginario comune.

Da una parte, la prima tesi fornita è quella secondo cui gli uomini che commettono femminicidio sono fuori di testa, privi del lume della ragione, vittime del furor e disconoscitori dell’αὐτάρκεια, impossibilitati a tenere a bada le passioni irrazionali. Questo altro non è che un esercizio di chiara, sana, deliberata e legittimata deresponsabilizzazione.

Degli esempi?

“Preso da un raptus”;

“Quello non è un uomo, è una bestia”;

“La colpa è della passione”;

“Disperato perché lei voleva lasciarlo”.

Queste sono solo alcune delle parole volte tutte, indistintamente, ad annullare le responsabilità personali, alienando completamente l’individuo, tramutandolo in alieno ed etichettandolo come errore di fabbrica di una società che sforna uomini modello.

La seconda opzione, invece, tira in ballo la responsabilità di chi di femminicidio ci muore e porta quindi a chiedersi, a detta di Barbara Palombelli, se non ci siano stati dei comportamenti che abbiano incitato a farsi mutilare della stessa vita. Non c’è da meravigliarsi se queste parole suonano familiari, sono le stesse della retorica del victim blaming (colpevolizzazione della vittima): “Se l’è andata a cercare”; “Però, se avesse evitato di…”. Ridurla a semplice colpevolizzazione della vittima in realtà è quasi farle un torto, perché non si limita a quello: si basa su una credenza popolare piuttosto in voga secondo cui è possibile evitare la violenza di genere e che rassicura chi invece fa la brava ragazza, perché a una brava ragazza queste cose non succedono. Brave ragazze a cui vengono inculcate le virtù della tradizione perduta, valori che non si applicano ai maschi e che riguardano solo ed esclusivamente la sfera femminile, i quali hanno il compito di rendere le ragazze la materia prima che verrà plasmata in manufatti artigianali chiamati “gentildonne”.

Tra le opzioni presentate però non figura l’unica valida: i femminicidi sono omicidi dolosi che non raccontano nulla né della vittima né del carnefice. Piuttosto, narrano di un sistema che permette e normalizza questo abuso, secondo uno schema sistemico e perpetuato. Quindi la responsabilità è solo di Barbara Palombelli? No, ovviamente. È anche di un sistema che si cela dietro e che sostiene le sue affermazioni. Un uomo che commette un femminicidio non è folle, non è stanco, non è malato: è un figlio sano di un patriarcato possessivo e invasivo che l’ha convinto che la donna sia di sua proprietà e che non possa vivere al di fuori del suo controllo. Indice di ciò è il fatto che, statistiche alla mano, il numero di femminicidi che avvengono ogni anno non diminuisce nel tempo. Mentre negli anni in Italia i reati legati alla criminalità si sono ridotti, quel numero rimane sempre invariato, perché i 130 femminicidi in media all’anno dipendono dalla cultura, che legittima l’uomo ad avere una reazione violenta, che in questo caso sfocia nell’omicidio, nei confronti della donna che rivendica la libertà di scelta sulla propria vita.

In conclusione, il modo in cui si fa informazione determina la percezione della realtà raccontata in tutti i lettori e le lettrici. Il nome che assegniamo alle cose è riflesso di come le percepiamo. Ecco perché è importante, soprattutto per chi si occupa di comunicazione, porre una cospicua attenzione nella scelta delle parole utilizzate per dare una notizia, perché non si sta raccontando solo un fatto, ma si determina la possibilità che quello stesso fatto si verifichi o non si verifichi ancora. Dare un nome al fenomeno significa cominciare a occuparsi del fenomeno stesso, portando a fare i conti con l’ipotesi per cui è necessaria una normativa specifica, di aggravanti specifici o di un percorso di formazione specifico, essendo un delitto di matrice culturale. Non un raptus, non un dramma della gelosia, non un delitto passionale, ma un femminicidio. Perciò, non basta limitarsi alla pubblicazione di un commovente monologo sui femminicidi, le vostre lacrime di coccodrillo non vi assolveranno.

Jdii Zakaria 5 F no