Crepacuore: storia di una dipendenza affettiva

A tutti quelli che hanno vissuto una storia di dipendenza affettiva. A chi ne è uscito. A chi crede di non avere scampo”. Sono queste le parole della dedica che apre il nuovo libro di Selvaggia Lucarelli, conosciuta giornalista, amata quanto odiata dal popolo del giornalismo italiano, per la schiettezza che la caratterizza. Nel 2021 la giornalista e scrittrice ha deciso di misurarsi in una sfida ardua, forse tra le più complesse di tutta la sua carriera: mettersi completamente a nudo riguardo la sua vita, senza alcun tipo di filtro a schermarla dal giudizio degli altri. Nasce così il suo ultimo romanzo: “Crepacuore-Storia di una dipendenza affettiva”.

La lettura si apre con una calamitante prefazione, scritta dalla psicologa Ameya Gabriella Canovi, la quale espone, in modo pertinente, il contenuto del manoscritto da un punto di vista medico, attraendo irrimediabilmente l’attenzione del lettore. Non bisogna credere, però, che sia la classica storia d’amore, struggente ma a lieto fine. La scrittrice stessa traccia due rette, tra loro coincidenti, che sono due dipendenze tra loro spaventosamente simili. Quella dagli stupefacenti e quella dalle persone che crediamo essere il centro dell’universo, per lo meno del nostro. Con una scrittura cruda e diretta, la Lucarelli racconta, con il senno di poi, una sua passata relazione, malata fino al midollo, nello stesso modo in cui si racconta ai bambini della strega cattiva, per ammonirli ed avvisarli di prestare attenzione alle proprie azioni.

UNA RELAZIONE MALATA

Da vittima trasfigurata in una sorta di Virgilio moderno, Selvaggia si siede accanto ai propri lettori, e tiene saldo il timone durante il viaggio all’inferno che quel tipo di rapporto incarna vividamente. I capitoli rappresentano simbolicamente le fasi che si susseguono nell’incubo lucido della dipendenza, a partire dall’idillio fino ad arrivare all’agognata presa di coscienza della propria avvilente situazione. In ognuno di essi Selvaggia racconta, ma soprattutto si racconta, e lo fa sempre con grande dignità.

La sua è un’analisi attenta e obiettiva, non si nasconde dietro un dito neppure nelle occasioni in cui ammette di aver messo da parte suo figlio, oltre che sé stessa, perché troppo avviluppata in quella spirale distruttiva che è la dipendenza da affetti. Il libro è scorrevole nonostante, o forse grazie, all’empatia per il dolore che ha caratterizzato quel periodo della vita della giornalista, perché, si sa, la sincerità, ma anche il coraggio di esporsi, pagano sempre. L’invito dell’autrice è quello di prestare attenzione, e quando quella non basta più, di avere il coraggio di chiedere aiuto. Ci sono storie come certi quadri appesi: tutti le vedono storte, tranne i due abitanti della casa. Storie che non hanno nulla a che fare con la felicità, e soprattutto, con l’amore.

Di Raffaella Pelliccia