Ad Auschwitz c’era un’orchestra femminile

L’orchestra delle donne di Auschwitz carezzava con le sue melodiche note la nefandezza  delle condizioni del campo di deportazione di Auschwitz-Birkenau.

L’Orchestra,  sottofondo dello sterminio, fu ideata dall’austriaca Maria Mandel, membro del regime nazista e componente delle SS, processata nel 1947 a Cracovia per esser stata coinvolta direttamente nella morte di 500.000 deportati nei lager nazisti.

La Mandel pensò di dotare il campo di un’orchestra per fornire un sottofondo musicale ai compiti dei propri abitanti: “dall’accoglienza dei convogli e treni stipati di gente allo stremo, alle selezioni per le camere a gas e impiccagioni, l’Orchestra era lì a suonare anche per ore, e con qualsiasi condizione atmosferica”.

Alma Rosé

Tra il 1943 ed il 1944, l’Orchestra arrivò a contare più di quaranta musiciste. Dilettanti, autodidatte e professioniste di grande spessore si ritrovarono a suonare insieme per le vittime e i carnefici. Tra le musiciste vi era la grande violinista, di origine ebraica, Alma Rosé che, nonostante il proprio talento e parentele illustri, non riuscì a sfuggire alla deportazione. Suo zio era Gustav Mahler, compositore e direttore d’orchestra austriaco del periodo tardo romantico. Suo padre era il violinista Arnold Rosé, primo violino della Wiener Philharmoniker per 50 anni, dal 1881 al 1931.

Alma Rosé fu deportata dai nazisti nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau e lì, per 10 mesi, diresse l’Orchestra femminile di Auschwitz, un’orchestra di prigioniere che suonavano per per sopravvivere.

La funzione principale dell’Orchestra di Auschwitz era quella di suonare davanti al cancello principale ogni mattina e ogni sera mentre i prigionieri partivano e tornavano dai loro incarichi di lavoro; l’Orchestra teneva anche concerti nel fine settimana per i prigionieri e per le guardie ed intratteneva le SS durante le loro funzioni.

Le musiciste erano deportate (ebree di varie nazionalità e prigioniere di guerra ariane) che, in virtù del loro compito, erano nutrite meglio, ma non poi così tanto, rispetto alle altre nel campo, erano esentate dai lavori pesanti, avevano vestiti più caldi e meno logori, la possibilità di lavarsi ogni giorno, e perfino di fare sporadiche scampagnate. L’orchestra femminile era in breve un piccolo angolo di paradiso nel più profondo inferno.

La violinista e direttrice dell’Orchestra femminile, oltre alle composizioni ufficiali, quelle cioè riconosciute dal regime nazista, suonava clandestinamente anche composizioni polacche ed ebree per tentare di migliorare l’atmosfera cupa del lager. Ella portò l’arte in un luogo di morte, cercò di donare un raggio di luce nel buio più totale. Morì il 5 aprile 1944, a 37 anni, di una malattia improvvisa nel campo, forse per avvelenamento da cibo.

Fania Fénelon

L’Orchestra comprendeva altre due musiciste professioniste, la violoncellista Anita Lasker-Wallfisch e la cantante e pianista Fania Fénelon, ognuna delle quali scrisse dei ricordi del loro periodo nell’orchestra. Nel racconto della Fénelon, Playing for Time,del 1980, si respira la presenza di Alma Rosè con la quale strinse un forte legame.

Ricordiamo, della Fénelon, il libro “Ad Auschwitz c’era un’orchestra”. Ciò che rende questo libro interessante e speciale è il tipo di sofferenza raccontata, meno fisica (sebbene anche le musiciste soffrissero di fame, tifo e attacchi di dissenteria) e più psicologica. La consapevolezza di godere di determinati privilegi investì le giovani musiciste di atroci sensi di colpa, acuiti quando erano costrette ad esibirsi davanti ad altre deportate, che da lì a poco sarebbero state condotte alla camera a gas. Non solo: la controversa sensazione di gratitudine nei confronti di chi faceva sì che l’orchestra esistesse, aggiungeva ai sensi di colpa un profondo senso di vergogna.
Fania e le sue compagne suonavano, in cambio della propria sopravvivenza, per il piacere di personaggi come Mengele e Kramer, dei quali certo non ignoravano le atrocità commesse. L’istinto di sopravvivenza, che le spingeva a suonare e cantare meglio che potessero, prevaricava e schiacciava il senso dell’onore e l’amore per se stesse.

Ad Auschwitz l’essere umano viene annientato, e con esso la sua morale: non rimane che il tentativo di rimanere in vita, a costo di qualunque cosa. È questo che alla Fénelon preme raccontare: così veniamo a conoscenza della gerarchia del campo, di deportate che “fanno carriera” e che aiutano le SS, che diventano Kapo, ebree che danno il proprio contributo nell’uccidere ebree, così ci sono rivelate le nefandezze fra prigioniere, la desensibilizzazione al dolore altrui, l’atrofizzazione dell’empatia.

Alma e Fania sono dei simboli di speranza e di sopravvivenza, portatrici di arte nel dolore, esempi di come le passioni sopravvivono anche al male assoluto, di come ci salvino dal cadere vittime dell’oppressore.

 

Sara M.G. D’Annunzio