E fui monaca per sempre!

Caro diario,
“Il mio destino è nelle mie mani” , è quello che mi frulla notte e giorno nella mia testa.
Oggi è l’ultimo giorno in monastero, domani potrò raggiungere i miei genitori nella casa di famiglia, sebbene dovrei essere contenta di uscire dal monastero, e lo sono indubbiamente, un nodo d’ansia mi stringe lo stomaco. Sono trascorsi molti giorni ormai da quando ho inviato una lettera a mio padre, ho confessato tutto ciò che c’era da confessare, diventare monaca non era la mia vocazione… Mi dispiace deludere le aspettative dei miei cari, ma ho ascoltato le mie compagne e, pare, che al di fuori di queste mura ci sia una vita di feste e banchetti ad attendermi, e io non ho intenzione di rinunciarvi.
Caro diario,
Sono trascorsi diversi giorni dall’uscita del convento e le cose non stanno andando come avevo sempre immaginato. Il tragitto è stato l’unico frammento di tempo in cui potevo dire si sentire davvero il calore del sole sulla mia pelle, il cuore sobbalzava nel petto, mi sentivo legata alla speranza, sebbene questa sia l’ultima a spegnersi, la fiamma si sta affievolendo. Ero sicura che mio padre fosse un uomo determinato, ma io lo muoverò a compassione, piangerò e pregherò per il suo consenso.
Mia madre mi venne incontro abbracciandomi e accarezzandomi i capelli caldi dal sole, mio padre dietro di lei mostrava un sorriso di benevolenza verso me, sua figlia. I servi e le domestiche mi riservarono un caloroso benvenuto, mi sentivo accolta e voluta bene. In casa i festeggiamenti non mancarono, banchetti e numerosissimi invitati, amici, parenti e vicini. Tutti posavano su di me i loro sguardi sorridenti. Tra un sorriso e un altro mi ritrovai difronte il viso della madre badessa. Capii allora che era tutto un sogno, la sensazione di benessere e leggerezza era scomparsa come quando d’improvviso il sole viene coperto dalle tenebrose nuvole spinte con raffiche dai venti freddi.
Un groviglio d’ansia mi stringeva le viscere quando oltrepassai l’uscio. L’ansia mi bloccava la mente, mi tremavano le mani, erano tanti anni che non vedevo mio padre, sebbene di rado veniva a fare qualche visita al convento. Ciò che mi più mi abbatteva inesorabilmente era l’attesa, che lunga e viscida, si intrufolava come un serpente stringendomi la gola. Il giorno tanto bramato e atteso era arrivato, ora spettava a me prendere in mano la situazione, non si trattava d’altro che dire un sì e io non lo dirò. Feci un passo verso l’ingresso e mi sentii come in apnea, il respiro mi si bloccò nei polmoni. I miei genitori parevano neanche essersi accorti che io, fossi entrata. Salutai, anche se pare un gesto rapito, mi ci volle tutta la concentrazione, i pensieri si erano bloccati e pareva che il cervello avesse lasciato le redini del mio corpo. Mia madre si votò e dopo ott’anni rivedi il suo viso che di rado mi appariva nei sogni: era sempre angelico e sorridente, ma stavolta pareva fosse di pietra. Gli occhi imperscrutabili mi analizzarono attentamente per poi posarsi su quelli di mio padre. Tutti erano seri e burberi. Mi facevano sentire, come se avessi commesso un peccato mortale, come se non fossi degna di essere loro figlia. Nessuno mi rivolse una parola, né uno sguardo sprezzante o severo. La servitù pareva avesse contratto la stessa malattia che affliggeva i miei cari, ma forse quella “malata” ero io. Avevo sperato che nella casa paterna le cose sarebbero cambiate, mi aspettavo tutto ciò di cui raccontavano le mie compagne. Le odiavo perché potevano avere ciò che tanto desideravo, le odiavo perché non potevo essere come loro.


Caro diario,
Mi sembrava di vedere uno spiraglio di luce alla fine del vicolo nero. Oggi un paggio, dopo diversi giorni che tutti mi lasciavano in disparte si interessò a me chiedendomi se avessi una boccetta d’inchiostro da prestagli. So che sembra una richiesta alquanto futile e insignificante, ma per me ha significato tanto: qualcuno dopo diversi giorni mi ha finalmente rivolto la parola. Da quel giorno ci troviamo spesso in giro e non mancano i suoi apprezzamenti nei miei confronti, mi sono sentita apprezzata, anche se da parte di un umile paggio, il mio cuore ha tratto un respiro di sollievo in quella che pareva essere diventata una prigione mentale.
A distanza di giorni capii che lo spiraglio di luce era solamente un’illusione. Ero intenta a scrivere un biglietto per lui, ma fui sorpresa da una domestica. Lei tirava da una parte, io facevo pressione da quella opposta, mi maledico per non averlo strappato, per averlo scritto, per averlo solamente pensato. Di quel biglietto ne venne a conoscenza mio padre, che dall’alto della suo prestigio mi incuteva terrore. Lo sentii avvicinarsi passo dopo passo che risuonava nel pavimento vuoto. Temevo perché sapevo di essere colpevole, sapevo di esserlo. Rimasi nel mio letto, con la vergogna, il rimorso e il terrore dell’avvenire. La situazione in famiglia precipitò e non seppi più trovare tranquillità. Sono cinque giorni che sono rinchiusa in camera, ma la prigione peggiore è quella della mia mente, dove i pensieri viaggiano veloce e finiscono per soffocarmi . Le mura del convento sono più alte, ma non soffocanti come quelle della mia camera. Desidero avere la grazia di mio padre ed essere accettata nella famiglia, non voglio vivere da esclusa, senza amore.
Caro diario,
La situazione in famiglia è cambiata radicalmente. Dopo il mio amaro pentimento, mi gettai in ginocchio davanti a mio padre implorando il suo perdono. Non parlò direttamente, prese la mia richiesta di perdono come un consenso alla vita da monaca. Mio padre mi presentò alla famiglia come la pecora che s’era smarrita e d’un tratto i parenti cominciarono a trattarmi con rispetto, a congratularsi. Molteplici occupazioni non mi lasciarono tempo per riflettere su come poteva cambiare la mia vita con quel passo irrevocabile. Prima la badessa e poi il vicario mi hanno chiesto riguardo la mia monacazione. Ero convinta di potermi tirare indietro, ma mio padre mi suggerì che non ammetteva falli, altrimenti avrebbe dovuto parlare riguardo la mia colpa. Ho ancora tempo.
Caro diario,
“Ho ancora tempo”, la menzogna più grande che io abbia mai detto a me stessa. Sin da prima che io nascessi il mio futuro non mi apparteneva. Sono delusa da me stessa, sono stata debole, non sono riuscita a far valere la mia volontà su quella di mio padre. Nessuna festa si prospettava nel mio futuro, nessun marito, nessuna grande villa in cui abitare, solo un velo, questo è ciò che mi rimaneva. Nessuno sospettò delle menzogne che rifilai al vicario, avrebbe avuto pietà per me se avessi detto la verità? O ha capito tutto ed era stanco di sentirmi mentre piazzavo una risposta secca dietro l’altra?
Fui ricolmata di lodi, carezze e promesse, ma niente può o potrà mai placare il mio tormento interiore, né l’apparente amore da parte dei miei genitori, né le grazie in convento, nell’avere una vita che non ho mai desiderato avere. Il mando sarebbe andato avanti, il sole sarebbe sorto e calato, ma io non l’avrei visto se non dalla piccola grata del convento.
Quando misi di nuovo piede all’interno, quella volta sarebbe stato per sempre. Fu quello il momento in cui capii che la folle rincorsa tra i miei sogni e le avversità stava toccando il traguardo. Cosa rimane di me? Solo i segni della corsa sul terreno…
Maria Sofia Spadaro II B Liceo classico – Istituto “G. Carducci” – Comiso (RG)