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Poesia e note si incontrano, due forme d’arte intercambiabili .

La musica e la poesia sono due arti eccelse che troppo spesso vengono lette come disgiunte. Non si deve dimenticare che per i Greci erano la medesima cosa come, ad esempio, la poesia lirica , così detta dal nome della lira, che aedi (“cantori”) e rapsodi (“cucitori di canti”) adoperavano per decantare le loro opere allietando i loro ascoltatori. Gran parte della nomenclatura stessa che si utilizza in retorica e in metrica deriva dall’ambiente musicale, un’eterna fonte d’ispirazione della poesia.
Un termine forse tra i più conosciuti in comune alle due arti è quello di madrigale: popolarissimi sono i madrigali dell’estate di D’Annunzio e molti testi di Pascoli. In poesia, fiorisce soprattutto dal XIV secolo come componimento di tema inizialmente bucolico, ma che diverrà molto più variegato ed elegante nel ‘500; in musica, esplode fra il XIV e il XVI secolo come testo di tema profano e polifonico. In entrambi I casi si tratta comunque di componimenti quasi sempre brevi.


Particolarmente suggestivo è l’effetto che si attribuisce a espedienti come quello di cui fa uso Beethoven dando inizio alla sua quinta sinfonia con una croma di pausa: a prima vista potrebbe sembrare inutile poiché non avrebbe senso cominciare con una pausa; in realtà, quel silenzio, come si suol dire, comunica più di mille parole: è allo stesso tempo simbolo di una tranquilla e mite situazione iniziale e dell’angoscia scaturita dalla consapevolezza del proprio fato ineludibile. Tale accorgimento non è estraneo alla poesia: molti autori (per lo più contemporanei) hanno iniziato i loro componimenti con i puntini di sospensione con intenti anche molto differenti l’uno dall’altro. Molto rinomata è la composizione 4’ 33’’ di John Cage, per qualsivoglia strumento, in cui l’esecutore tace per tutta la durata del brano: l’opera deve “farsi da sola”, un po’ come in Verga l’autore sparisce lasciando che sia la realtà a scrivere i suoi romanzi.

Ci si può rendere conto di quanto questa simbiosi artistica sia inscindibile se consideriamo, in primo luogo, che il greco e il latino si basavano su un sistema quantitativo delle vocali (si distingueva in lunghe e brevi, si tratta dell’accento melodico, presente, fra le varie lingue vive, anche in cinese) mentre in italiano ne abbiamo uno qualitativo (c’è un’opposizione fra vocali aperte e chiuse), quindi la musicalità e l’armonia regolavano melodicamente i versi. Anche in italiano, però, il ruolo di questi due elementi è centrale: dalla metrica barbara alle figure retoriche del significante (o di suono). Banalmente ci basta pensare alle canzoni che si sentono ogni giorno alla radio: composte di strofe (come in poesia) e di un ritornello (nel caso del rapping, si parla spesso di flow, a grandi linee equivalente al ritmo e alle rime, insomma alla tonalità sillabica, già presente in poesia), quella parte della canzone che spesso riaffiora alla mente e che senza difficoltà si rammenta. Si tratta di ripetizione che è un nerbo dell’opera poetica (figure retoriche dell’iterazione). Anche l’epos ne è una testimonianza esemplare: gli epiteti, i patronimici e le scene tipiche sono un chiaro sintomo della trasmissione orale (e specialmente canora) di essa.

Tutte le opere di musica, soprattutto classica, raccontano una storia diversa: pensiamo alle quattro stagioni di Vivaldi, allo schiaccianoci di Čajkovskij e migliaia di altre in cui il suono diviene simbolo di una sorta di “metalinguaggio”. Così è anche in poesia, di là dai poemi (come la “Gerusalemme Liberata”, la “Commedia” dantesca, l’ “Orlando Furioso” e l’epica stessa), si pensi al fonosimbolismo che ha influenzato universalmente quest’arte portando a una vera e propria “semantizzazione” dei suoni: così nella “Pioggia nel pineto” di D’Annunzio in cui le parole sembrano imitare la caduta della pioggia, alle onomatopee che costellano l’opera pascoliana (di grande notorietà è il “fru fru tra le fratte” del testo “L’assiuolo”) e non solo, all’opera di Palazzeschi (come in “La fontana malata”) financo alle moderne “fanfole”, filastrocche e poesie che spesso non hanno alcun senso, ma che “suonano bene”.

 

Michelangelo Grimaldi