Supreme: storia del brand di culto

Creata nell’aprile del 1994 come marca d’abbigliamento per skater, Supreme nasce per mano dell’imprenditore americano James Jebbia.
La storia del marchio è strettamente legata al suo primo store, aperto a New York in Lafayette Street. Il layout del negozio era assolutamente nuovo: prodotti disposti ai lati e un grande spazio al centro utilizzabile come una pista, un misto tra un negozio, una pista da skate e una galleria d’arte.
All’epoca era una via tranquilla, con botteghe d’antiquariato, una caserma dei pompieri, un meccanico e lo store di Keith Haring, dimostrando una certa connessione con la scena artistica, che si rivelerà, con il passare degli anni, una delle chiavi del successo.
Il concept rivoluzionario al tempo e il design atipico iniziano a far parlare di sé e diventa uno dei luoghi di raduno più in voga della Grande Mela.
Il negozio era dedicato agli skaters, assidui frequentatori, mentre i comuni mortali dovevano guadagnarsi il diritto di entrare per fare shopping.

Il marchio nasce nel periodo in cui Nike e Adidas, grazie alla diffusione della cultura hip hop, avevano iniziato a vendere sneaker, felpe, t-shirt e giacconi sportivi a milioni di giovani statunitensi. La diffusione dello streetwear si basava proprio sull’emulazione dei rapper da parte dei teenager che avevano la possibilità di vestirsi come i loro idoli. 

Nel 2004 poi aprì il secondo negozio ufficiale Supreme, questa volta in North Fairfax Ave a Los Angeles, California, grande quasi il doppio rispetto al negozio originale e con al suo interno una vera e propria pista da skate. Il brand diventò tanto famoso che ci fu un susseguirsi di aperture di negozi a Parigi, Londra, Tokyo, Nagoya, Osaka e Fukoka, tutti con una struttura simile all’originale store di New York.
Supreme ha completamente stravolto le regole del mercato e del “fashion system”, inserendosi abilmente nel segmento luxury attraverso strategie pensate per creare aspettativa.
Una storia di successo che ha avvicinato due mondi apparentemente agli antipodi, lo streetwear e il lusso, trasformando un negozio newyorkese in un fenomeno globale che in poco più di 25 anni ha attirato la curiosità del pubblico e degli addetti ai lavori del settore moda.
Il logo Supreme spicca per il suo design dalle linee semplici ma dal colore accattivante, un box rosso in cui campeggia la scritta bianca realizzata col font Futura Italica e ispirato alle opere dell’artista americana Barbara Kruger, così come esplicitamente ammesso da Jebbia.

Supreme ha diversificato fin da subito la propria offerta senza concentrarsi su un prodotto più di altri, ma spaziando in lungo e in largo tra abbigliamento e vari gadget.
Vengono prodotti accessori e gadget di tutti i tipi, oltre a skateboard da collezione in collaborazione con un palmares invidiabile di artisti.
L’elenco delle personalità che hanno collaborato con Supreme negli ultimi due decenni potrebbe riempire una galleria d’arte: Christopher Wool, Jeff Koons, Mark Flood, Nate Lowman, John Baldessari, Takashi Murakami, Damien Hirst, David Lynch

“Se so che ne posso vendere 600, allora ne produco 400”
Parallelamente all’aver azzeccato la tendenza e a un logo innegabilmente accattivante, la forza di Supreme sta però soprattutto nell’aver adottato una tecnica simile a quelle delle società d’alta moda, che producono capi elitari e costosissimi per posizionarsi nel segmento del lusso, ricorrendo spesso a collaborazioni ed edizioni limitate. La strategia è particolare e fa della scarsità la sua regola fondamentale: rispetto ad ogni altro marchio che rilascia le collezioni in una volta sola, Supreme rilascia soltanto una decina di capi o accessori per volta; i cosiddetti “drop” sono venduti online ogni settimana il giovedì.
Questa strategia che punta a vendere pochi capi che vanno esauriti istantaneamente, mantiene attivo il fattore “hype” e contribuisce ad alimentare il desiderio dei fan alla ricerca spasmodica per accaparrarsi un capo del drop settimanale.

Non c’è da stupirsi che in un articolo del ’95 Vogue abbia definito Supreme come “lo Chanel dello streetwear”. Ovviamente i prodotti Supreme non sono mai venduti direttamente dalla società a prezzi paragonabili ai marchi di alta moda, nonostante i prezzi non siano alla portata di tutti, bensì in un affascinante mercato parallelo archetipo del capitalismo del “reselling” in cui una volta ottenuto un pezzo Supreme lo si può rivendere se molto richiesto ad almeno il doppio del prezzo pagato.
Il merito del brand consiste nell’aver saputo mantenere la reputazione di nicchia, l’esclusività e la difficoltà nell’acquistare i prodotti, la sistematica scarsità degli articoli Supreme e il peculiare metodo di vendita rappresentano due dei punti di forza del business del marchio.
Negli ultimi anni ha collaborato con colossi della moda come Nike, Vans, The North Face, Levi’s, Timberland, Stone Island e perfino Louis Vuitton continuando quindi a sviluppare il fascino che lo caratterizza ovvero del brand street ma estremamente esclusivo.

La società opera anche con mirate campagne promozionali che coinvolgono personaggi famosissimi della cultura pop, da Michael Jordan a Lady Gaga, e molti altri che semplicemente vestono Supreme e rendono virale il brand come accade in Italia con il noto cantante Fedez.

A confermare l‘importanza sul mercato globale della compagnia americana non solo come trend passeggero è stata l’acquisizione dalla VF Corporation per la modica cifra di 2,1 miliardi di dollari.
Supreme non è certo una società grande come quelle con cui collabora, ma è cool ed eccentrica quanto basta per essere diventata ormai un fenomeno che non accenna ad arrestarsi e che saprà far tesoro delle novità del sistema moda e cavalcarne l’onda.

Luca Marino