Intervista a Marco Panzeri

Come ultimo ospite dell’evento TEDXVasto, è salito sul palco l’architetto Marco Panzeri, che ci ha concesso la  possibilità di un’intervista. 

Lei è un architetto, quindi possiamo dedurre abbia una grande passione per la progettazione. Questa sua  passione l’ ha avuta sin dall’inizio oppure l’ ha sviluppata negli ultimi anni delle superiori? 

Non so, è un qualcosa che in realtà credo di aver sempre avuto. Il problema è che non è facile definire quel qualcosa. Io da piccolo non pensavo avrei fatto esattamente l’architetto, però ho sempre avuto una passione sia per il disegno che per la costruzione di sistemi complessi o comunque andare ad analizzarli. Nel dettaglio c’è sempre stato un qualcosa nell’arte che mi ha sempre affascinato, quindi sì, qualcosa c’è sempre stato. Si è poi trasformato in architettura, portandomi alla scelta del mio percorso universitario. Devo ammettere che il primo anno mi piaceva ma non ero pienamente convinto, in realtà continuando a frequentare il corso e capendo un pochino di più che cos’era l’architettura, mi ci sono appassionato molto. Successivamente, quando ho iniziato a lavorare, mi sono accorto che ci tengo particolarmente e che lasciare questa strada mi mancherebbe. 

Foto di Sara Prencipe

Le università di design o di graphic design hanno sempre un po’ a che fare con il mondo della progettazione. Lei  non le ha mai prese in considerazione? 

Design effettivamente è stata una tra le tante facoltà considerate. Alla fine però ho scelto architettura, un po’ perché c’era un aspetto, secondo me anche di complessità differente. Magari mi attraeva anche un po’ di più. Oggi ci ripenso e non so come sarebbe stato fare design, so che sono decisamente soddisfatto del mio percorso. L’architettura è una materia estremamente complessa perché poi va a prendere in considerazione molti altri ambiti che stanno al di fuori della tua conoscenza specifica quindi è sempre una materia corale, devi lavorare con un gruppo che è composto da tantissime persone che spesso non fanno nemmeno lo stesso lavoro. È sempre uno scambio reciproco e la cosa bella è che in qualche modo, cimentandosi, ti dà sempre un occhio su come funziona il mondo, ogni volta scopri qualcosa di nuovo. È un po’ la costruzione del mondo, ti rendi conto di tante dinamiche, hai voglia di scoprire ancora ogni volta qualcosa di nuovo. 

L’architettura, come ha detto lei, abbraccia tante altre discipline al di fuori dell’architettura stessa. Infatti, uno dei temi di questo TEDX è l’ambiente. La correlazione tra ambiente e architettura è un qualcosa di recente oppure se ne parlava già da prima seppur in maniera molto più ridotta? 

Considera che l’architettura è una trasformazione dell’ambiente, l’architettura disegna lo spazio, quindi probabilmente qualcosa di atavico ed intrinseco c’è sempre stato. Se pensiamo a qualcosa di molto primitivo tutte le architetture hanno sempre tenuto conto delle condizioni climatiche, della necessità di avere dei muri spessi, della necessità di alzare il terreno per via delle inondazioni, quindi c’è sempre stata una correlazione non esplicita. A partire dagli anni ‘60, quindi molto prima di quanto ci immaginiamo, l’architettura ha iniziato a prendere in considerazione questo tema, in maniera molto radicale all’inizio. Il problema vero di oggi è che costruire consuma molta energia e si costruisce comunque qualcosa che costantemente tende a consumare energia, per cui è diventato necessario ed inevitabile pensare al tema della sostenibilità. Purtroppo non ci si può tirare indietro dinanzi alle necessità e costruire è qualcosa che va fatto. Come? Qui si apre un mondo perché ancora oggi è difficile riuscire a fare qualcosa che sia totalmente sostenibile.  

Foto di Sara Prencipe

Ad oggi, non c’è ancora il supporto della tecnologia che ci permette di essere completamente green. È però comunque possibile impegnarsi nel trovare delle soluzioni che possano aiutare seppur parzialmente, come il retrofitting. Cos’è nello specifico e come l’ha attuato nella sua carriera? 

È un qualcosa nato naturalmente, perché la maggior parte dei progetti su cui mi sono sempre concentrato sono stati ristrutturazioni di edifici esistenti, quindi rimessa in funzione di edifici che erano obsoleti per qualità e caratteristiche. Avevano bisogno di essere riammodernati, essere in grado di non snaturare l’edificio precedente, e riuscire a rifunzionalizzarlo. Il retrofitting sostanzialmente è esattamente questo, prendere un qualcosa che già esiste e rifunzionalizzarlo. Questo è un modo di attuare anche una sovrascrittura, cioè non cambiare totalmente l’opera, ma sostanzialmente togliere e aggiungere piccole parti tali che la possano ritrasformare in qualcosa di più attuale. Avremo sempre più bisogno di trasformare le nostre architetture, poiché è molto meno dispendioso trasformare un qualcosa che già abbiamo piuttosto che buttarlo e ricostruirlo da capo. Le nostre città hanno moltissime sacche urbane vuote e dismesse, soprattutto perché nel dopoguerra la nostra economia si è espansa talmente velocemente che le nostre città sono cresciute rapidamente dimenticandosi delle zone che erano magari un po’ scomode. È lì che dobbiamo agire. Il retrofitting non è solo legato all’edificio ma anche agli aspetti delle aree dismesse quindi può diventare sempre più ampio questo discorso della rifunzionalizzazione. 

Oggi un architetto di cosa si deve anche preoccupare in ambito ambientale, nel concreto? 

Guardando moltissime pubblicazioni, in termini concreti si parla di fotovoltaici, fonti di energia rinnovabili, materiale riciclato. Questa è una parte che io ritengo essere la minima, la base di un qualcosa che si può fare ed effettivamente si fa. Il tema più attuale di cui si discute è la rigenerazione urbana, cioè la necessità che questa sostenibilità non sia legata solo al prodotto, al progetto sostenibile ma sia una sostenibilità un po’ più ampia legata al nostro habitat. La sostenibilità è direttamente correlata all’habitat, adesso abbiamo un problema di sostenibilità nel nostro pianeta. L’habitat non è o non potrebbe non essere più così agevole così come lo era in passato. Per le città è lo stesso, ci sono tutte queste sacche marginali quindi, la progettazione sostanzialmente, oltre all’edificio in sé, si dovrebbe concentrare di più sul progetto dello spazio circostante, dello spazio pubblico. Un edificio tendenzialmente riesce a vivere per anni e ad avere una lunga vita soprattutto se al suo intorno c’è un mix sociale, una sorta di equilibrio. Noi abbiamo passato gli ultimi vent’anni in cui l’architettura era diventata molto autoreferenziale, sulle riviste c’era questa architettura fantastica, bellissima che però in alcuni casi era esclusivamente autoreferenziale. Oggi forse dovremo disabituarci a quell’idea di autoreferenzialismo, non è quella la prima cosa a doverci saltare all’occhio ma riuscire a far funzionare quel sistema lavorando di più, più che sull’edificio stesso anche sul suo intorno, sulla propria terra, su ciò che succede intorno, sullo spazio dimenticato, sul vuoto e cambiare un po’ le nostre città. 

Foto di Sara Prencipe

L’architettura è sempre stata vista dall’esterno, anche dai ragazzi, come un qualcosa di sterile, legata sì al territorio ma poco dinamica come disciplina. Ai giovani cosa vorrebbe dire, soprattutto a coloro che sono reticenti nell’intraprendere questa strada?

L’architettura è strettamente correlata alle possibilità che vengono date, di tipo economiche, relative alla committenza, alla sensibilità e ad un certo tipo di ambiente. La sfida divertente inizia nel momento in cui entri all’interno di quel tipo di logica, perché sai che puoi provare ad inventare qualcosa di interessante, c’è sempre un pensiero dietro al progetto, è quella la cosa interessante, riuscire a tirare fuori un pensiero non banale. È anche vero che in alcuni casi ed in alcune situazioni ti trovi dinanzi tantissimi freni che sono dovuti alla non volontà, alla non disponibilità di budget, alla non necessità e a dei meccanismi burocratici a volte molto complicati. Quella visione quindi è in parte vera. Quando inizi a fare architettura, diventi un architetto ed inizi a lavorare, inizi a renderti conto che è una materia del pensiero e ti dà veramente la possibilità di immaginare, di creare e poi di poterlo realizzare, quella è la soddisfazione massima. Il ruolo comunque è sempre sociale, è una materia che è importante perché costruisci qualcosa che non è fatto giusto per il gusto di farlo perché poi non ha lunga vita. Bisogna dare importanza al concetto che è il linguaggio ma è anche l’utilizzo, a volte puoi fare un utilizzo un po’ più creativo di qualcosa che già esiste, un oggetto può essere trasformato in altro, devi a volte pensare anche all’uso che ne vien fatto. Può essere un po’ difficile fare questo genere di lavoro.  

Lo spazio devi anche un po’ lottare per creartelo. Devi seguire un po’ la pancia, nel senso che se è una cosa che effettivamente ti convince, allora provaci perché poi sarà una bella sfida trovare quello spazio nel quale riuscire a fare tutte queste cose. Vale la pena provarci perché troverai una molla interiore che ti spingerà a non fartele pesare perché il bello dell’architettura è che non è un lavoro noioso, è un lavoro molto divertente. La parte noiosa però è che a volte hai a che fare con sistemi molto complessi, rapporti con la clientela, aspetti di budget, difficoltà tecniche e tecnologiche, situazioni di contorno. Quella è la parte difficile ma non è un lavoro in cui ci si annoia. La verità è che non ti annoia se te lo senti dentro, se hai questa spinta e sei sicuro che ti dia delle soddisfazioni. Se hai qualche dubbio vale la pena rifletterci un attimo perché sicuramente non è una professione semplice, anche da un punto di vista banalmente economico devi trovarteli gli spazi. C’è bisogno di parlare, di discutere, d proporre e non è sempre facile. L’indole è quella che ti aiuta tantissimo, come per tutti i lavori del resto, ma lo consiglierei particolarmente per architettura. Ci sono tantissime battaglie e devi avere quella voglia, quel sentimento per affrontarle in maniera positiva. È una disciplina fatta soprattutto di passione perché quando arrivi al progetto finale lo vedi un po’ come se fosse “tuo figlio”, perché ti sei speso tanto e quindi vuoi che sia così ed è questo che fa tanto, quella passione nel riuscire a realizzarlo. Poi lo vedrai sempre lì tutte le volte che passi, lo vedrai invecchiare, passerà il tempo e quella è la cosa bella: è tangibile. 

 

Stefania Capuano