“Lo squalificato”, uno dei romanzi di Osamu Dazai più celebri della letteratura giapponese del Ventesimo secolo, racconta la storia di un disegnatore, Yozo, che, sentendosi rifiutato dalla società, vive una condizione esistenziale di estrema solitudine.
Il libro è in gran parte autobiografico e le problematiche vissute da Yōzō sono le stesse vissute da Dazai nel corso della sua vita.
Yozo, è un artista in fallimento, un alcolista, uno che ha tentato il suicidio, uno che non ha assolutamente una vita perfetta. Ha paura delle persone e, probabilmente, se fosse andato da uno psicoterapeuta, gli sarebbe stata diagnosticata una sorta di ansia sociale.
Yozo è terrorizzato dalla società, non sa nemmeno con sicurezza cosa sia la società. Ma effettivamente cos’è la società? Nel significato letterale è un “insieme organizzato di individui”, e il nostro protagonista ha paura proprio di rapportarsi con gli individui.
Ecco che Yozo si crea un personaggio, con la risata facile e l’ottimismo innocente, diventa una sorta di pagliaccio che si impegna a far ridere gli altri per poter piacere.
Forse è alla ricerca di una sorta di validazione, oppure è terrorizzato dall’idea di non essere accettato e, per questo, si costruisce un personaggio, indossa una maschera che lo fa sentire al sicuro, a riparo dalla società, da quell’ammasso di persone il cui unico scopo è quello di puntargli il dito contro.
Il libro viene descritto dai media come simbolo degli artisti giapponesi nel dopoguerra: uomini smarriti e a disagio. Ma è davvero solo questo?
Quanti al giorno d’oggi potrebbero rispecchiarsi nello squalificato?
Quanti tirano su una maschera per proteggersi dalla società, per non venire “squalificati” come esseri umani in mezzo agli umani?
Silvana Miulli