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Lo scrittore Antonio Carlucci racconta agli studenti del Mattioli il suo romanzo “Fuggire”

L’emigrazione è uno dei temi più discussi degli ultimi anni. Un tema che seppure non ci riguarda da vicino, scuote gli animi di tutti. Centinaia di vite umane sono coinvolte in questo fenomeno che mai come prima d’ora si è reso protagonista di storie drammatiche. Una di queste storie è quella di Zahir, protagonista del romanzo “Fuggire” di Antonio Carlucci. L’autore è riuscito a dare voce a coloro che, come Zahir, si sono ritrovati ad abbandonare tutto pur di crearsi un futuro migliore. Il 4 aprile il professore Antonio Carlucci ha presentato il suo libro agli studenti del Polo Liceale Mattioli e noi abbiamo colto l’occasione per porgli alcune domande. 

 

Lei non è nuovo al mondo della scrittura essendo “Fuggire” il suo secondo romanzo. Questa passione per la scrittura è nata col tempo, oppure già in adolescenza aveva desiderato di dedicarsi a questo? 

Faccio tutt’altro nella vita, ho sempre fatto tutt’altro, ho fatto il pediatra. Però mi è sempre piaciuto molto leggere e ad un certo punto ho trovato anche il tempo, una volta finito il mio lavoro da medico ospedaliero, di fare ritorno a quello che era un desiderio che covavo da tempo, quello di scrivere.

Qualcuno mi ha detto:” Ti sei impegnato subito con un’opera importante, cioè con un romanzo, la scrittura di un romanzo, perché scrivere un romanzo? 

Capisco, è molto più impegnativo che non scrivere un racconto. Mi è venuto abbastanza naturale, ho scoperto di avere una certa facilità alla scrittura. Ho pubblicato il mio primo romanzo nel 2018.Tutto in una valigia è un romanzo che venni a presentare anche in questa scuola. È una storia di emigrazione degli inizi del secolo passato e il protagonista è un ragazzo, un giovane che ha 14 anni, che parte per l’Argentina a cercare fortuna. Questo secondo romanzo, pubblicato nel 2022, riguarda ugualmente una storia di emigrazione ma al contrario, di immigrazione. Riguarda un giovane afghano di vent’anni, che fugge. Il titolo del romanzo fa riferimento proprio alla necessità, sentita da questo ragazzo, di scappare via, perché l’Afghanistan è un teatro di guerra con il ritorno del regime talebano, un regime oscurantista che nega l’istruzione, soprattutto alle donne. 
È l’unico posto al mondo in cui l’università è vietata alle ragazze. E questo la dice lunga sul desiderio che può provare un giovane ragazzo di cercare un mondo migliore. 

 

Foto di Sara Prencipe

Nel suo romanzo affronta diverse tematiche, a partire dall’immigrazione alla critica sociale allo stato afgano.  C’è una tematica che lei ritiene più importante di altre, oppure sente di dare a tutte quante la stessa rilevanza? 

Lo spirito antimilitarista-pacifista del protagonista è sicuramente una di queste. Si traduce nell’unica possibilità che ha di scamparsela, di andare via dal suo paese. Andare via però gli costa perché comporta tagliare le radici con la sua famiglia, recidere le radici con quel mondo nel quale è cresciuto, con quelle regole con cui lui è stato abituato a vivere. 
Sa che nei luoghi in cui lo porterà il destino, non troverà sicuramente una situazione facile. 
E qui c’è l’altro aspetto importante: come noi ci poniamo di fronte a questa marea di persone che vengono nella cosiddetta Europa evoluta, più libera sicuramente, ma ricca anche di pregiudizi e di ostilità. Qui è bene proprio fare un raffronto tra gli emigranti che siamo stati noi agli inizi del secolo passato, quando abbiamo subito le stesse angherie, le stesse difficoltà, gli stessi soprusi dei quali oggi ci rendiamo responsabili nei confronti di coloro che arrivano da noi. Se ci ricordassimo che anche noi siamo stati emigranti in un altro luogo che anche noi abbiamo dovuto dimostrare che eravamo persone per bene, che cercavamo semplicemente un mondo migliore, un luogo migliore, delle condizioni di lavoro migliori, probabilmente non ci comporteremmo nella maniera nella quale purtroppo, troppo spesso, ci comportiamo. 
 
 Questa storia è basata su uno studente della “Penny Wirton” di Lanciano. Lei è un insegnante in questa scuola come volontario. Come è riuscito ad entrare a far parte del mondo dei giovani immigrati? 

 
La scuola “Penny Wirton” è un’istituzione che nasce nel 2008. Proprio per merito di un giornalista, l’insegnante Eraldo Affinati. Un professore che crea una scuola ben diversa da quelli che sono i canoni delle scuole che siamo abituati a conoscere. È una scuola per migranti che ha come obiettivo l’insegnamento dell’italiano. Non è una scuola che prevede un voto. È una scuola in cui c’è un rapporto di insegnamento uno ad uno; si va ben oltre il criterio dell’insegnamento così come noi oggi lo consideriamo. Si crea un rapporto che oltrepassa il puro apprendimento della lingua, diventa un rapporto di amicizia, di confidenza, di sostegno, di aiuto nei confronti di questi ragazzi che vengono qui e si ritrovano in un ambiente sconosciuto con una scarsa o, addirittura, del tutto assente conoscenza della lingua, con difficolta estreme per potersi poi collocare nella società in maniera utile. Il motto di Don Milani dice che soltanto la conoscenza della lingua ci rende veramente uguali e ci rende liberi, padroni di poterci in qualche modo affermare nella realtà in cui noi viviamo. 

Io ci sono arrivato perché una delle sedi del Penny Wirton è stata aperta nel 2017 a Lanciano e sono stato tra gli insegnanti volontari che hanno aderito a questa iniziativa con molto piacere. Questa cosa mi ha dato l’opportunità di conoscere questo ragazzo afgano che poi mi ha dato lo spunto per raccontare, in questo romanzo, tutta la sua avventura. 

  

Qual è stato, all’interno di tutto il suo romanzo, il passo più commovente o più difficile da scrivere? 

Di passi interessanti ce ne sono, soprattutto l’apertura. È il primo contatto di questo ragazzo sulle montagne, con una donna anziana che vive sola. Questa donna teme che il giovane sia arrivato lì a derubarla. Lei vive in una malga di montagna con i suoi animali e ha inizialmente paura di lui, però poi capisce che è semplicemente in cerca di rifugio, di qualcuno che lo possa aiutare. E‘ un passo molto bello in cui si vede la trasformazione da un’iniziale diffidenza e paura che si tramuta in questo grande affetto, quasi materno, che si creerà tra queste due persone. Lui ritrova in Gisella la figura della famiglia, la figura della madre. Poi ci sono gli altri momenti legati proprio alla fuga, momenti drammatici, momenti nei quali viene rincorso dalle guardie e dai cani, in cui scappa, si deve liberare e butta via lo zaino con tutto ciò esso contiene, con la sua carta di identità e il passaporto afgano. Butta via tutto e si ritrova senza più niente.  

  

Foto di Sara Prencipe

Se dovesse descrivere il romanzo con sole tre parole, quali sceglierebbe? 

Tre parole potrebbero essere queste:  

Conoscenza della storia dell’Afghanistan. Ho dovuto studiare perché dell’Afghanistan conoscevo notizie molto superficiali, quelle che arrivano a noi attraverso la stampa o i telegiornali. 

Cuore perché è una storia che dà molta importanza al cuore, inteso come sentimento di allontanamento dalla propria casa e  come senso di accoglienza da parte di chi è predisposto ad accoglierlo. 

Ragione perché è quella che costringe il protagonista ad andar via. Lui sa che rimanere vuol dire venir preso dai talebani. Deve lasciarsi andare non soltanto ad una decisione dettata dall’impulso, dall’immediatezza dal cuore ma anche dalla ragione, dal considerare i pro e i contro del rimanere e del nuovo che lo accoglierà. 

  

Prevede di scrivere un altro romanzo o ha deciso di prendersi una pausa? 

No, una pausa no, me la prenderò forse più avanti. Intanto ho già immaginato quello che sarà il mio terzo romanzo. L’ho già iniziato a scrivere e sono a buon punto della sua stesura. 

 

Stefania Capuano