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Perché in ambito sanitario la tecnologia da sola non basta  

Intervista a Silvia Di Maio, anestesista dell’Ospedale Galliera

di Emma Riciputi, 1B 

Se la tecnologia è ormai entrata a far parte del nostro quotidiano, in particolar modo nello svolgimento delle attività lavorative e delle professioni intellettuali, il suo sviluppo non può che condizionare in modo rilevante la vita di molte persone, anche in ambito sanitario.

Ce lo spiega la dottoressa Silvia Di Maio, anestesista all’Ospedale Galliera di Genova.

Da quanto tempo svolge il lavoro di anestesista in ambito ospedaliero?

“Da circa venti anni svolgo le mie mansioni, principalmente in sala operatoria”. 

Quali strumentazioni vengono utilizzate nel suo lavoro? 

“In particolare, vengono adoperati ventilatori, monitor che misurano i parametri vitali, macchine per emodialisi, macchine scalda paziente, programmi informatici per le terapie, per i dati clinici e per gli esami diagnostici”. 

Come si è evoluta nel corso degli anni la tecnologia nell’ambito della sua professione?

“Sicuramente molto: i presidi sono più affidabili e performanti, con la conseguenza che minore è la probabilità di compiere errori e maggiore la semplificazione delle esigenze del clinico”.

 Con l’impatto tecnologico, i cambiamenti sono stati solamente positivi o ve ne sono anche di negativi?

“Moltissimi sono positivi: una maggiore precisione nella gestione della medicina; una minore incidenza degli errori umani e l’attivazione di procedure più veloci e tracciabili. Tuttavia, si sono registrati costi elevati, anche perché non tutto ciò che l’industria propone risulta poi realmente necessario. Inoltre, le informazioni possono risultare di difficile comprensione per l’essere umano, se elaborate in tempi stretti e tutte contemporaneamente. Un’enorme quantità di dati può determinare una distrazione dall’analisi clinica del paziente”.

Il progresso tecnologico ha influenzato il rapporto medico-paziente? 

“Certamente. A prima vista sembrerebbe in modo negativo, perché nel momento in cui scrivo al computer non riesco neppure a guardare in faccia chi mi racconta l’anamnesi. Quindi, sicuramente si è realizzato un allontanamento del medico dal paziente. Tuttavia, la tecnologia ha migliorato molto la ‘presa in carico’ del malato, in quanto la sua visita sarà sempre tracciabile, consentendo di fruire in modo veloce e funzionale delle informazioni che lo riguardano”. 

I nuovi sistemi hanno avuto un impatto sulla dimensione organizzativa dell’attività medica?

“Sì, le procedure si sono velocizzate e al contempo sono divenute meno invasive e meno pericolose. Velocizzare significa poter curare più persone nello stesso tempo rispetto al passato, riducendo sia l’aggressività degli interventi che i relativi costi”.

Durante l’emergenza Covid l’evoluzione della tecnologia è stata utile?  

“La pandemia ha fatto comprendere quanto la tecnologia sia fondamentale in ambito sanitario. Nella fase iniziale, ad esempio, la mancanza dei ventilatori ha determinato l’impossibilità di trattare nell’immediato i pazienti più gravi. Successivamente, una volta forniti i ventilatori, si è evidenziato che mancavano gli operatori capaci ad utilizzare tali attrezzature. La tecnologia, perlomeno nella sanità, da sola non basta. Inoltre, essa dipende dalla corrente elettrica: in caso di blackout, fortunatamente, subentra altra tecnologia, i cosiddetti gruppi elettrogeni, delle specie di pile giganti che mantengono accesa la strumentazione vitale per i pazienti.

Tali effetti positivi permangono anche oltre il periodo emergenziale.

La sanità pubblica si è arricchita di molte apparecchiature, sono stati assunti molti medici e molti infermieri e, infine, sono migliorate le conoscenze di alcuni reparti specialistici, quali la terapia intensiva, l’anestesiologia e la rianimazione, prima di allora poco diffuse. Posso dire, dal punto di vista personale di aver vissuto l’emergenza sul luogo di lavoro in maniera molto intensa, con non poche difficoltà, ma sempre con il fine ultimo di far stare bene le persone”.

Se dovesse descrivere il suo lavoro di anestesista…

“Per me l’anestesia è come un volo aereo, in cui le fasi iniziali e finali (l’addormentamento ed il risveglio del paziente) sono molto delicati se confrontate con il “volo” che rappresenta invece il mantenimento del paziente in uno stato di sonno profondo e indolore”.