Nuove prospettive: La nuova scuola genovese

di Francesco Ferrando e Luna Frau Caccioppoli, 2d

Molte persone percepiscono il rap e i suoi artisti come un genere inconsistente e senza fondamenta, ma può non essere così.

Ce lo dimostra il docufilm “La nuova scuola genovese”, scritto e ideato da Claudio Cabona e diretto da Yuri Dellacasa e Paolo Fossati.

Il nuovo cantautorato genovese, rappresentato dai rapper Bresh, Cromo, Demo, Disme, Guesan, Ill Rave, Izi, Nader, Tedua, Vaz Tè e altri incontra gli artisti e i loro testimoni che negli anni Sessanta hanno scritto la storia della musica d’autore, Gian Piero Alloiso, Cristiano De André, Vittorio De Scalzi, Dori Ghezzi, Giua, Max Manfredi, Gino Paoli, Gian Franco Reverberi, Federico Sirianni e altri. Non mancano le perle, sul finale, con i contributi di due colossi, Marracash, che non è di Genova, ma che la critica considera uno dei migliori rapper del panorama italiano e Ivano Fossati, genovese doc e, certamente, tra i più amati cantautori italiani.

Durante il film, chiacchiera dopo chiacchiera e intervista dopo intervista, viene affrontato il quesito alla base della trama:

E’ possibile che ci sia stato un muto passaggio del testimone culturale dalla così detta Scuola Genovese degli anni Sessanta al Wild Bandana?

Con questo non intendiamo sottintendere dei nuovi De André, Gino Paoli, ecc…, parliamo della ricerca della vera libertà di cui parleremo in seguito con Izi e Dori Ghezzi, parliamo dell’amato territorio che queste due generazioni condividono e che costituisce lo scheletro della loro musica, parliamo dell’impronta che le canzoni d’autore genovesi hanno lasciato su artisti che, per la maggior parte, sono cresciuti ascoltandole, come un un nipote che ascolta le storie che il nonno gli racconta.

Il tutto avviene a Genova, in un’alternanza di paesaggi e luoghi che la rendono riconoscibile al mondo, ma in particolare a chi a Genova è legato, a chi si perde nei pomeriggi soleggiati tra i vicoli del centro storico, tra le case che urlano storie, a chi osserva ed è curioso, perché una città non si subisce, si vive.

Le prime inquadrature sono a volo di gabbiano e le immagini ci arrivano come se stessimo guardando la città dall’alto, è lo stesso Paolo Fossati a spiegare la scelta stilistica dettata alla necessità di raccontare Genova da un nuovo punto di vista, così come nuova è la prospettiva che questo film vuol dare alla musica d’autore.

Ed eccoci nel Museo dei Cantautori in Via del Campo 29 rosso, è lì che incontriamo Bresh e Cristiano De André.

Una cosa di questa chiacchierata colpisce particolarmente ovvero il pensiero che riferisce Cristiano De André e che è condiviso anche da Bresh: “chi fa musica per un pubblico ha la responsabilità di raccontare qualcosa di coerente rispetto alla propria persona.

 

 

Si incontra Izi due volte nel corso del film, una volta da solo, e l’altra in compagnia della donna che ha accompagnato Fabrizio De André fino alla fine, Dori Ghezzi.

Ciò che differenzia il cantautorato genovese dalle altre canzoni italiane è proprio Genova, così Izi afferma che il centro storico è come un “Vaso di Pandora”, ricco di persone semplici provenienti da ogni dove con molte storie da raccontare, che volente o nolente un artista prima o poi racconterà.

Nella conversazione tra Izi e Dori Ghezzi risaltano la ricerca della libertà, la vera libertà desiderata anche da Fabrizio De André e il tema delle fragilità, che, secondo loro, non devono rimanere nascoste per paura, ed è forte chi le accetta e le racconta, come ha fatto Fabrizio, perché è umano averne e perché fanno parte di ciascuno di noi, della nostra identità.

Tedua è un altro artista che compare nel documentario più volte, prima nella sua auto, mentre guida verso ponente sulla sopraelevata nei pressi di Principe, successivamente a Cogoleto, paese natale, precisamente tra i binari ferroviari ed infine durante la sua intervista a Gino Paoli.

Secondo Tedua ciò che principalmente accomuna le due generazioni di cantautori è il registro linguistico: provenienti tutti dalla strada scelgono di utilizzare un registro basso e spesso decidono di cambiare il significato delle parole, ad esempio rendendo una parola come “Amore” vuota e “Troia” colma di significato, ciò richiama alla nostra memoria “Il cielo in una stanza”, canzone celeberrima, che Gino Paoli ha scritto pensando a una prostituta.

In seguito Tedua ha l’occasione di misurarsi proprio con Gino Paoli e ciò che emerge dal confronto è che la musica non deve essere un “sentimento chiuso” ma un modo per aiutare il pubblico a riflettere. Così pensa il  “Maestro” Paoli, un provocatore per scelta che non da peso al pensiero che le sue parole e azioni potrebbero suscitare nelle persone che lo seguono e lo circondano.

Questo è un film che permette al pubblico di cogliere i punti d’incontro tra la vecchia e la nuova scuola genovese. Entrambi i gruppi di amici vogliono raccontare la vita nuda e cruda delle persone che fanno parte dell’ambiente in cui vivono, con parole profonde di denuncia nei confronti della società, della politica e con l’ambizione di un mondo più libero. Il riscatto sociale o la crescita personale, l’attenzione per i più deboli e gli emarginati sono i temi della loro voglia di rivalsa.

Dopo l’intervista di Tedua a Gino Paoli compaiono in scena i due ospiti speciali: Marracash e Ivano Fossati. Questi discutono sia sul legame che sulle differenze tra le due forme di linguaggio offrendo una visione non solo legata al territorio.

Marracash accomuna il rap allo stile linguistico di cantautori come De Andrè e Guccini che nei loro testi usano lessico, metrica e rime paragonabili a quelle dei rapper.

Il pensiero che Fossati ci propone è che i rapper hanno spesso uno sguardo ampio e particolare e che i loro brani sono portati ad essere conflittuali con il potere. Marracash afferma però che non è così per tutti: è molto soggettivo, ogni artista, anche dello stesso genere, ha uno stile di scrittura e delle idee musicali autentiche. Ivano Fossati aggiunge che apprezza la semplicità con la quale i rapper riescono ad esprimersi, i loro brani sono il risultato di minor elaborazone musicale in sala da registrazione rispetto alla sua generazione, che invece era attenta ad una costruzione del brano molto più complessa, a loro basta una base ritmica per comunicare un messaggio.

Il docufilm è nato da un’idea che è cresciuta nei quattro anni successivi, prima di iniziare le riprese e le interviste che sono durate circa un mese.

Il regista e l’autore, ospiti dopo la proiezione avvenuta al liceo “D’Oria” hanno raccontato di aver imparato molto da questa esperienza, il modo diverso di vivere rispetto alle proprie abitudini, un senso di apertura verso le nuove generazioni e una nuova disposizione della mente. Applausi ed entusiasmo hanno accompagnato questa Assemblea d’Istituto che è stata un tributo di amore per la musica e per la città di Genova.