di Emanuela Gasperini e Alice Moretti 2B
Giovedì 18 gennaio abbiamo incontrato al Liceo Andrea D’Oria il testimone di giustizia Tiberio Bentivoglio, che ci ha raccontato, trasmettendoci grande emozione e forza, la sua battaglia contro la mafia.
La storia di Tiberio
Tiberio Bentivoglio è nato a Reggio Calabria nel 1953, in una famiglia numerosa e di modeste condizioni. Lui fu l’unico dei suoi fratelli a proseguire gli studi e a frequentare l’Università degli studi di Messina. Divenne farmacista e si sposò con Enza Falsone, con cui ebbe due figlie.
Nell’ottobre del 1979 Tiberio e la moglie aprirono sotto casa nel garage un negozio di articoli di puericultura. Sin da subito l’attività ebbe successo e tredici anni dopo nell’aprile del 1992, poco prima dell’inaugurazione del nuovo locale, venne fermato in macchina da un mafioso di nome Nino, che gli chiese il pizzo. La coppia si rifiutò e nei mesi successivi vennero più volte intimiditi con chiamate anonime nel bel mezzo della notte e lettere minacciose.
Tiberio denunciò le numerose intimidazioni, subite in quell’anno, ai carabinieri e nel ’93 avvenne il primo processo in un’ aula bunker sottoterra. Tiberio ci ha spiegato che il momento più difficile è stato indicare il mafioso Nino, su richiesta del giudice.
Nel 2003 una signora si presentò al negozio e ritirò prodotti per circa duemila euro, dicendo che sarebbe passato a pagare il marito: fece il nome di un noto latitante. Allora Bentivoglio respinse il pagamento e la fece uscire. Bentivoglio la osservò salire su una macchina e fare svariate telefonate. Sedici giorni dopo, il cinque aprile 2003, il negozio venne fatto saltare in aria da una bomba rudimentale, costruita da due fratelli collusi con la mafia che erano gli unici della provincia in grado di ideare quel tipo di esplosivo.
I due fratelli gemelli, Gianfranco e Sebastiano Musarella, vennero condannati, tuttavia uscirono dopo soli quattro anni, per la scadenza di una notifica.
Due anni dopo la bomba, un incendio distrusse il negozio rovinando 432.000 euro di merce. Tiberio voleva chiudere, ma la moglie lo convinse a non mollare. Nel medesimo anno fondò insieme alla moglie e ad altri tre concittadini un’associazione socioculturale, Reggio libera – Reggio, contro la mafia.
Qualche tempo dopo il proprietario della struttura in cui si riunivano dichiarò che l’associazione doveva chiudere perché provocava fastidio al boss mafioso Santo Crucitti e anche ad un’altra persona, che venne intercettata dalla polizia attraverso una chiamata e si rivelò un sacerdote di nome Nuccio Canizzaro presidente di un’altra associazione.
Il prete venne condannato secondo l’articolo 416 bis del codice penale che prevede una reclusione tra i dieci e i quindici anni per chiunque faccia parte di un’associazione di tipo mafioso composta da tre o più persone. Dopo la condanna del sacerdote, l’associazione venne chiusa.
Nel 2008, la figlia di Tiberio verso l’una di notte notò delle fiamme provenire dal capannone. Tiberio uscì solo e in pigiama per controllare, vide il magazzino incendiato e si affrettò a chiamare i pompieri. Chiamati i soccorsi, sull’uscio Tiberio si sentì male. Dopo questo attentato la polizia dichiarò Bentivoglio un obiettivo sensibile e gli venne proposta la scorta, ma lui declinò l’offerta.
Oggi dichiara che questo rifiuto è stato il suo errore più grande. una mattina del 2011 si stava recando verso il suo frutteto, quando, dopo esser sceso dal suo furgone, sentì sei spari e un dolore al polpaccio. Dopo le indagini della scientifica venne scoperto che i proiettili rinvenuti nel camion avevano colpito la lamiera ad altezza d’uomo. Chi aveva sparato, lo voleva uccidere. Tiberio si salvò perché l’arma del killer si era inceppata. Per il tentato omicidio vennero indagate cinque persone, tra cui un medico.
L’ultimo attentato subito dai Bentivoglio avvenne nel 2016: venne incendiato un altro magazzino.
Dopo l’attentato del 2016, la coppia affittò un locale al centro della città che era un bene confiscato. I beni confiscati sono capitali mobili, immobili e aziende confiscate dallo Stato alla mafia. Tiberio afferma che secondo lui ad un mafioso dà fastidio se qualcosa che prima era una sua proprietà viene trasformata in qualcosa di positivo. In Liguria sono stati confiscati 444 beni appartenenti all’Ndrangheta, arrivata nella regione circa quarant’anni fa.
Rita Atria
Durante la sua testimonianza, Tiberio ha parlato anche dei magistrati Falcone e Borsellino, due delle più importanti figure della lotta contro la mafia e di una giovane ragazza di nome Rita Atria che li ha aiutati in questa battaglia. Rita Atria nacque nel ’74 a Partanna in Sicilia, in una famiglia di mafiosi: suo padre Vito Atria era un pastore. Da quest’ultimo la ragazza venne a conoscenza degli affari e dell’attività mafiosa a Partanna. Dopo la morte del fratello, lei e sua cognata denunciarono gli assassini e decisero di collaborare con la giustizia, conoscendo così Borsellino. Le due permisero l’incarcerazione di molti mafiosi siciliani e un’indagine sull’allora sindaco della loro città.
Dopo la strage di via D’Amelio, in cui Borsellino perse la vita, ella si suicidò buttandosi dalla finestra del suo appartamento di Roma.
Il messaggio di Tiberio: contro l’indiffernza
A seguito di una domanda posta dagli alunni, il signor Bentivoglio ha manifestato la sua opinione riguardo il sistema giuridico italiano, che ritiene il più rigido al mondo, ma senza una reale certezza della pena. Bentivoglio intende dire a causa della eccessiva specificità delle leggi è più difficile accusare l’imputato di un determinato reato, quindi non c’è davvero certezza di pena. Sempre rispondendo a questa domanda ha citato Nicola Gratteri , riferendosi a lui come uno dei magistrati più importanti nella lotta contro la mafia. Gratteri è un magistrato calabrese di fama internazionale per le sue operazioni antimafia.
Con questi interventi nelle scuole, Bentivoglio vuole trasmettere agli studenti alcuni concetti importanti: egli considera l’indifferenza la malattia più grave di questo paese, infatti, secondo lui bisogna parlare dei propri problemi e non tenerli per se stessi; la mafia conta su questa indifferenza per avere più potere sulle singole persone.