di Francesco Repetto, 3B
Quest’estate ho avuto la fortuna di fare un viaggio immersivo in Mongolia, un paese del quale in occidente si sa ben poco.
Durante il viaggio ho compreso che la Mongolia è una terra di contrasti, sia a livello naturale che sociale. Il paese, situato nell’Asia orientale, tra la Russia e la Cina, racchiude paesaggi mozzafiato e una natura incontaminata che spazia dalle steppe del nord zeppe di animali da pascolo alle distese più aride del deserto del Gobi a sud, dove non mancano catene montuose che superano i duemila metri.
L’ambiente presenta quindi una grande biodiversità: mentre al nord si allevano yak e cavalli, al sud si allevano cammelli e ovini. Vagando per il Gobi si possono vedere gruppi di antilopi, ma anche capre di montagna che si affacciano sulle dune, situate al di sotto di una catena montuosa per una lunghezza di ben 180 km. Le dune del Gobi sono simili a quelle che possiamo vedere nei deserti africani, con la differenza che al di sotto di queste troviamo un vero e proprio fiume sotterraneo. In tutto il paese, inoltre, vive un numero enorme di uccelli rapaci, come aquile, falchi e avvoltoi che volano sopra il bestiame e fanno nidi in cima ai canyon.
La Mongolia milioni di anni fa era una immensa palude che ospitava molte specie di dinosauri, ed è proprio nel deserto del Gobi che Roy Chapman, che ispirò il personaggio di Indiana Jones, trovò nel 1924 le prime uova intatte di dinosauro, oltre ad altri numerosi fossili come quello del Tarbosauro, cugino del più noto T-Rex americano.
Se il panorama naturale della Mongolia è variegato, lo è altrettanto il tessuto sociale, tant’è vero che sono presenti due forme di religione, l’arcaico sciamanesimo e il buddismo, con la maggior parte della popolazione che crede al potere di entrambe e ne segue i riti. Sul territorio sono presenti molti templi buddisti, per lo più moderni, perché molti di quelli antichi vennero distrutti dai sovietici durante la dittatura comunista.
Il paese è conosciuto per essere uno degli ultimi nel mondo moderno ad ospitare il nomadismo. Per millenni i pastori hanno vissuto spostandosi continuamente lungo i grandi spazi verdi per garantire un pascolo e un riparo dal gelo invernale al loro bestiame e un terzo della popolazione ancora oggi vive in questo modo. I nomadi vivono nelle “ger”, tende ampie e circolari, fatte di feltro con sostegni di legni intrecciati, ma facilmente smontabili. Sono il simbolo della Mongolia e abbiamo avuto la fortuna di dormirvi durante il viaggio.
Oggi questo forte tradizionalismo entra però in contrasto con lo sviluppo del paese, rimasto “arretrato” perché legato alle tradizioni nomadi, ma anche a causa della dittatura sovietica finita nel ’90. E così che nel paese che Gengis Kahn rese grande secoli fa, ora sono presenti anche tante miniere, centrali elettriche a carbone e industrie che, insieme al traffico urbano molto caotico, rendono Ulan Bator la capitale più inquinata al mondo. Infatti, nonostante i Mongoli rispettino molto la natura e siano legati ad essa, ai suoi cicli e ai suoi misteri anche attraverso lo sciamanesimo, non hanno ancora maturato il senso della salvaguardia di tale patrimonio naturale, così che pure nei paesini più sperduti della campagna è possibile vedere a bordo strada una quantità considerevole di rifiuti abbandonati.
La Mongolia si trova quindi davanti ad una grande sfida nel bilanciare la sua doppia natura: rispettare il suo fragile ecosistema unico al mondo e le sue tradizioni, pur restando al passo con l’urbanizzazione e lo sviluppo necessario per arrivare al livello degli altri paesi asiatici più avanzati.
Riuscire a trovare un equilibrio è perciò fondamentale per il futuro del paese che ha la possibilità di emergere come un modello di armonia tra tradizione e modernità, tra uomo e natura.