di Sabrina Pieralisi e Lucia Riggio, 4B
Quando nasce il termine “gentilezza”?
Un ottimo modo per capire il legame fra due termini così apparentemente discordanti è confrontarsi con le etimologie: la parola gentilezza deriva dal termine latino gens, che per i Romani significava “famiglia nobile”; alla fine del ’200, grazie ai poeti del dolce Stil novo, per gentilezza si intende la virtù che nobilita; il senso di questa parola, adesso ha una accezione leggermente diversa, oggi è gentile chi ha un comportamento generoso e benevolo nei confronti degli altri.
Altra cosa è la cortesia, termine derivato dallo sviluppo della società di corte, da cui deriva il galateo. Le norme delle buone maniere sono state analizzate dal sociologo tedesco Norbert Elias, che ha studiato il processo di civilizzazione dell’uomo.
Grazie allo sviluppo di quelle norme nate nella società cortese, cambia il modo in cui il cittadino percepisce l’uomo in relazione con gli altri.
Con il processo di civilizzazione, oggi, anche il contatto involontario innocuo diventa imbarazzante: nel tempo infatti ci si è dissociati da ciò che implicava aggressività, violenza o anche semplice contatto in pubblico.
Per esempio, in passato era consuetudine mostrare la selvaggina agli invitati di un banchetto prima di cucinarla; oggi in Oriente il cibo viene tagliato simmetricamente e artisticamente prima di servirlo nel piatto, cosicché a tavola non ci sia necessità di un coltello, perché viene percepito come oggetto violento.
Gentilezza e spiritualità per contrastare la violenza nell’ambiente carcerario
Se tutto ciò che è associato alla sfera della violenza è inusuale per un codice di consuetudini, allora, cosa succede in carcere? Nelle prigioni, infatti, cadono i filtri che presenti nella vita normale: i detenuti non hanno una propria intimità, sono costretti a superare ogni imbarazzo.
I carcerati, infatti, si trovano spesso a condividere celle di dimensioni disumane: i detenuti hanno descritto la sensazione dello stare un cella come quella di un ascensore affollato, che però ha una porta sempre chiusa. Vivono per lunghi periodi con un solo bagno per decine di persone e per questo trovano spesso conforto nella solitudine.
In carcere si dimentica il contegno tipico del mondo esterno, non si temono sanzioni o prolungamenti di pena perché, chiusi tra quattro mura, non si vede il futuro: per questo i detenuti sono spesso frustrati e violenti.
La violenza può essere anche interiore: l’autolesionismo, purtroppo, è molto diffuso nelle carceri e di solito chi ne soffre lo giustifica come dimostrazione del fatto che il dolore fisico sia più sopportabile di quello interiore.
Contrastare la violenza con altra violenza è quindi controproducente: come rimedio per arginare l’aggressività, sono necessarie gentilezza e spiritualità.
Le parole hanno un potere performativo, si trasformano cioè in azione. Il lessico della gentilezza e della spiritualità ha un valore che deve essere ristabilito nelle carceri, in modo che siano davvero un ambiente educativo.
Mostrare ai detenuti che possono essere trattati con rispetto, che meritano comprensione, significa aiutarli a riconquistare una parte di quella dignità che appare costantemente negata dalle condizioni della detenzione.
La gentilezza ha anche il potere di aprire il dialogo.
In un luogo dove la comunicazione è spesso basata su conflitti o paure, un atto gentile può essere il primo passo verso un cambiamento, un’inversione di rotta. Non si tratta di cancellare le colpe, ma di offrire la possibilità di un percorso di crescita, di consapevolezza, di riparazione.
È importante anche coltivare la spiritualità: lo spirito è un soffio, un respiro vitale che è necessario risvegliare e ciò avviene tramite l’ascolto. La comunicazione e l’apertura alla spiritualità offrono quindi un servizio riparativo e riescono a riportare ai detenuti la gioia nel ricordare quel respiro che un tempo possedevano. E’ davvero un’intima gioia ridare respiro a chi trascorre la propria esistenza in carcere.