Mauthausen: un salto nel passato tra memoria e dolore

Di Chiara Flacco, 2D

Quest’estate ho avuto l’opportunità di visitare il memoriale di Mauthausen, luogo di memoria e di educazione storico-politica che mi ha permesso di approfondire non solo le mie conoscenze ma anche la mia consapevolezza degli avvenimenti.

Negli anni dal 1938 al 1945 il campo di concentramento di Mauthausen era il luogo centrale di persecuzione nazista in Austria. Apparteneva a una rete di campi che si estendeva sul territorio dell’intero Reich germanico. Questi campi servivano alla detenzione di oppositori politici arrestati nei confini del Reich ma, con l’inizio della guerra, i prigionieri venivano deportati oltre che per motivi politici, anche per motivi razziali. 

Sicuramente questa è stata una delle esperienze più significative che abbia mai fatto perché trovarmi in un luogo reale con un passato così terrificante è stata una sensazione che solo chi ha visitato questi luoghi può comprendere.  

Appena entrata nel campo, la prima cosa che ho visto è stato il parco dei monumenti, un enorme prato dedicato a statue commemorative dei deceduti all’interno del campo, ogni nazione ha inserito un proprio monumento per ricordare i propri morti. Soltanto negli anni ‘70 venne costruito un monumento per ricordare tutti gli ebrei deceduti, quando già erano presenti molti monumenti nazionali. 

Tra tutti i monumenti quello che mi ha colpito di più è stato quello della Cecoslovacchia che raffigura un uomo scavato dalla fame con il viso segnato che rappresenta i detenuti, che urla e cerca aiuto senza però ricevere soccorso. 

 Dal prato si riusciva a vedere anche la grande cava di granito, motivo per cui il campo era stato costruito in questo territorio: i prigionieri nei primi anni della guerra venivano obbligati a lavorare nelle cave di pietra e, a partire dal 1942, si sviluppò una rete formata da più di 40 sottocampi, nei quali i prigionieri venivano usati come schiavi.  Per lo sfruttamento delle cave era stata formata una vera e propria impresa: la società s.r.l. DEST “deutsche Erd- und Steinwerke GmbH” che fece enormi profitti. La cava era anche un luogo di eliminazione e punizione, infatti i detenuti erano costretti a trasportare blocchi di granito pesanti più di 50 chilogrammi, salendo quella che loro stessi chiamavano “scala della morte”. 

Durante il lavoro nella cava i deportati venivano uccisi in modo mirato: le SS sparavano loro oppure li facevano cadere giù dalla cava. 

Una testimonianza, contenuta nell’audioguida del memoriale, mi è rimasta particolarmente impressa, quella del sopravvissuto polacco Stefan Niewiada, testimone oculare di uno di questi episodi:

Io ho visto dei crimini commessi nei confronti di un gruppo di ebrei olandesi composto da circa cento persone. Furono messi in fila uno dietro l’altro e obbligati a spingere il compagno davanti a loro giù dalla parete della cava. Io stavo lavorando a 150 metri di distanza dal punto esatto in cui toccavano terra dopo la caduta, i cadaveri furono poi portati al crematorio dalla compagnia di punizione.″ 

Dopo aver visitato il parco mi sono spostata verso il vero e proprio ingresso del campo dei prigionieri che all’esterno è delineato da alte mura in pietra che separano il campo dei prigionieri dalle numerose baracche Delle SS. 

L’unico accesso al campo è tramite il grande portone di ingresso caratterizzato da due grandi palazzine ai lati. I deportati al loro arrivo passavano da questa grande entrata per poi seguire estenuanti procedure accompagnate da lunghe torture. Spesso i prigionieri dovevano stare in piedi per ore lungo il cosiddetto “muro del pianto” per poi venire registrati e privati dei vestiti e dei propri averi. 

Di fronte a questo muro erano situate a destra le baracche dei prigionieri, strutture pensate per contenere un massimo di 300 persone ma, negli ultimi anni della guerra, erano più di 2000 i deportati che venivano ammassati in quei luoghi angusti. 

Le baracche al loro interno si presentavano completamente vuote, mi sarebbe piaciuto vedere delle riproduzioni di quelle che potevano essere le cose che si trovavano all’interno di queste strutture, per riuscire a capire meglio le difficoltà che i prigionieri affrontavano ogni giorno, ma vedere tutti i segni sulle pareti e sul pavimento è stato comunque segnante. 

Ogni baracca aveva una piccola stanza dedicata ai bagni che era sorprendentemente piccola e stretta e di certo non era adeguata alle esigenze di tutte le persone che vivevano (se così si può dire) lì; non a caso le condizioni igieniche erano davvero basse e dunque il rischio di contrarre malattie altissimo e soltanto alcuni deportati che godevano di particolari privilegi, come  abilità specifiche o ritenuti utili, potevano accedere alle cure mediche, questo causò infatti la morte di molti detenuti. 

Nella parte opposta alle baracche era situata la cucina, dove i prigionieri dovevano preparare il cibo per le SS e per i prigionieri. 

La guida ci ha spiegato che a differenza delle guardie che ricevevano un pasto abbondante, i prigionieri ricevevano pasti che avevano come massimo 1500 calorie che erano troppo poche rispetto a quelle necessarie per tutto il lavoro che svolgevano ogni giorno.  

 Questo serviva a rendere i deportati più deboli e incitare la lotta per la sopravvivenza tra i prigionieri. 

L’ex deportato Hans Maršálek scrive: ″Eravamo perseguitati dal senso di fame di giorno e di notte e gli affamati parlavano del mangiare in ogni occasione che gli si offriva. […] Facevano degli scambi: scambiavano due fettine di salame o di pane per un po‘ di zuppa […], biancheria o indumenti per generi alimentari. Nei luoghi di lavoro rovistavano ovunque in cerca di ogni possibile oggetto commestibile, mangiavano radici, erba, germogli, ghiande, ratti, gatti, cani, ogni tipo di rifiuto e carbone. Assalivano chi trasportava il cibo o cercavano di leccare dalle pentole vuote ultimi resti della zuppa di rape. […] Di notte cercavano di rubare il pane.″ 

Nel campo è situata anche una struttura più moderna che ha funzione di mostra. All’interno si trovano vari reperti come registri, utensili che venivano usati per cucinare, vestiti, armi, fotografie e diversi berretti che erano costretti ad indossare seguendo rigide regole. 

Infine nei sotterranei si trovano le camere a gas e i forni crematori. 

Prima di accedere a queste stanze però c’è una sala dedicata a tutti i deceduti. È stata veramente molto particolare e impressionante perché era costituita da innumerevoli tavoli con forme diverse su cui era poggiato uno schermo nero digitale sul quale erano scritti i nomi di tutte le vittime. Vedere tutti quei nomi e tutti quegli enormi registri è stato molto intenso.  

Come disse Primo Levi: “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”.