La legislazione sabauda lasciò in eredità al neonato Regno d’Italia il principio della “incapacità giuridica” della donna italiana che, per effetto del Codice Pisanelli, del 1865 (il primo codice civile del Regno d’Italia), era ancora sottoposta alla tutela del marito.
La Chiesa di papa Leone XIII, con l’enciclica Rerum Novarum (1891), pur pronunciandosi contro lo sfruttamento del lavoro femminile, era tutt’altro che incline alla loro emancipazione. Per il pontefice infatti «certe specie di lavoro non si addicono alle donne, fatte da natura per i lavori domestici […] e hanno naturale corrispondenza con l’educazione dei figli e il benessere della casa».
Una petizione pro-suffragio firmata da venti donne, tra le quali la pedagogista Maria Montessori, venne inviata al Parlamento nel 1906 da Anna Maria Mozzoni, pioniera del movimento emancipazionista italiano. Il documento generò divisioni al punto che il Presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, decise di promuovere uno studio sulla condizione femminile e istituire una Commissione Ministeriale. Alla fine i conservatorismi ebbero la meglio e la Commissione bocciò l’estensione del suffragio, sia a livello politico sia amministrativo, con la motivazione che il voto femminile sarebbe stato solamente una riproduzione di quello maschile. Nel 1912 un gruppo di deputati socialisti tentò inutilmente di far passare il voto alle donne durante la discussione del progetto di legge della riforma elettorale che avrebbe concesso il voto agli analfabeti maschi, ma trovò la ferma opposizione di Giolitti.
Nel lento cammino verso l’uguaglianza dei diritti, arriva la Prima Guerra Mondiale: le donne sono impegnate, per necessità, nei lavori di responsabilità fino ad allora delegati all’uomo. Con il fascismo la donna torna a lavorare, ma ricoprendo la figura di angelo del focolare. Nel primo dopoguerra le istanze femminili trovarono un alleato nel partito popolare di don Luigi Sturzo. Il 6 settembre 1919 la Camera approvò la legge sul suffragio femminile (174 favorevoli, 55 contrari) ma il Parlamento venne sciolto prima dell’approvazione in Senato.
Ancora una volta, con il secondo conflitto mondiale, la donna torna ad assaporare una sorta di parità con gli uomini. Durante la Resistenza saranno molte le donne “staffette”, informatrici e parte attiva della lotta contro l’occupazione nazifascista. Terminata la guerra, in occasione del Consiglio dei Ministri del 30 gennaio 1945, venne esaminata per la prima volta l’estensione del voto alle donne dai 21 anni, sancita con il decreto legislativo n. 23 del 31 gennaio 1945. In questo provvedimento, passato alla storia come “Decreto Bonomi”, non veniva menzionato il tema dell’elettorato passivo, ovvero la possibilità di essere elette, diritto garantito poco dopo, con il decreto n.74 del 10 marzo 1946, in occasione delle prime elezioni amministrative postbelliche: le donne con almeno 25 anni di età potevano eleggere ma soprattutto essere elette.
Tutte le donne, eccetto le prostitute “clandestine”, cioè coloro che lavoravano al di fuori delle case dove era loro consentito esercitare la professione, ottennero il diritto di voto attivo che esercitarono con orgoglio a partire dalle amministrative dalla primavera del 1946.
La prima volta in cui tutte le italiane ebbero la possibilità di recarsi in massa (oltre 12 milioni) alle urne fu in occasione del referendum istituzionale monarchia-repubblica, volto a stabilire se l’Italia dovesse rimanere una monarchia o diventare una Repubblica, e delle elezioni per l’Assemblea Costituente, il 2 giugno 1946.
Le politiche diedero alla Repubblica italiana 556 “padri” e, per la prima volta, ventuno “madri”.
Così la giornalista Anna Garofalo descriveva l’emozione del 2 giugno 1946, la prima volta delle donne al voto nazionale: “Abbiamo tutti nel petto un vuoto da giorni d’esame, ripassiamo mentalmente la lezione: quel simbolo, quel segno, una crocetta accanto a quel nome. Stringiamo le schede come biglietti d’amore. Si vedono molti sgabelli pieghevoli infilati al braccio di donne timorose di stancarsi e molte tasche gonfie per il pacchetto della colazione. Le conversazioni che nascono tra uomini e donne hanno un tono diverso, da pari”.
La strada per il suffragio universale femminile è stata lunga e travagliata non solo in Italia, ma nel mondo.
Per fortuna, oggi non esistono Paesi senza diritto di voto alle donne (ad eccezione del Vaticano, data la particolarità del suo ordinamento): l’ultimo a concederlo è stata l’Arabia Saudita nel 2011.
Il primo Paese ad aver raggiunto questo traguardo è stata la Nuova Zelanda nel 1893, seguita dall’Australia nel 1902 e dalla Finlandia nel 1906. La Russia concesse il suffragio universale nel 1917, mentre nel 1918 fu la volta del Regno Unito. Tra gli ultimi Paesi ad aver riconosciuto tale diritto ci sono gli Emirati Arabi Uniti nel 2006 e il Bahrain nel 2002.
Non sono mancati però degli scandalosi ritardi anche in Europa: le donne in Svizzera hanno dovuto attendere il 1971 per votare a livello federale, quelle del vicino Liechtenstein addirittura il 1984.
Carlotta Russi