Io, Robot

Cos’è che ci rende umani? Cosa ci differenzia in modo così indiscutibile da una macchina? “Io, Robot” tenta, almeno in parte, di rispondere a questa domanda. Inizialmente non ero troppo entusiasta di vedere il film, perché a vedere la descrizione su Sky non mi aveva fatto una grandissima impressione. Poi però mio padre lo selezionò sullo schermo della TV e allora mi convinsi a concedergli una chance, forse solo perché era tratto da un libro, e questo un po’ mi rassicurava. Non so come, ma il film mi catturò subito e non mi mollò più, probabilmente per la trama a ritmi serrati o semplicemente per l’inizio che mi aveva incuriosito e volevo quindi sapere come sarebbe andata a finire. Considero infatti una dote importante di un film quella di acchiappare l’attenzione dello spettatore fin da subito.
Il film è tratto dall’omonimo libro, una raccolta di racconti, di Isaac Asimov, scrittore russo naturalizzato statunitense, ma ne prende semplicemente spunto; sopratutto da ciò attorno a cui ruotano i racconti: le tre leggi della robotica. Queste tra leggi sono il pilastro della narrazione di Asimov e diventano il punto di partenza anche per il film.
Il film, uscito nel 2004 e ambientato nel 2035, vanta un cast d’eccezione con protagonista Will Smith, nei panni di un poliziotto sospettoso in tutto e per tutto dei robot e che quindi si trova a vivere in un mondo che sente conquistato dalle macchine a discapito degli umani. Gli si affiancano Bridget Moynahan, che interpreta una scienziata che crede ciecamente nella robotica, e Alan Tudyk nel ruolo di un insolito robot che, a differenza di tutti gli altri, sembra capace di provare emozioni,,sognare e agire di testa propria. È proprio dalla sua irruenta apparizione dopo l’inaspettato suicidio del padre di tutta la robotica, Alfred Lanning (interpretato da James Cromwell), che si snoda la trama del film, che porta a risvolti inattesi e drammatici.
Dietro la cinepresa c’è Alex Proyas e la bella sceneggiatura si deve a Jeff Vintar e Akiva Goldsman.
La grandezza del film, a mio dire, non sta molto negli effetti speciali o in colonne sonore che ti entrano in testa, quanto nell’interessante trama, che ci fa fare una specie di viaggio in cui poco a poco cambieremo punto di vista (o almeno io l’ho cambiato). Si parte infatti da un sentimento di sospetto e avversità nei confronti dei robot, quasi di odio, poiché questa è la mentalità del protagonista e noi vediamo tutto attraverso i suoi occhi. Poi però andando avanti ci rendiamo conto, grazie a vari avvenimenti, che forse i robot non sono così terribili come sembra. Grande merito va alla caratterizzazione del personaggio di Sonny (Alan Tudyk), il quale si dimostra molto più umano di molti uomini. Infatti dimostra di provare rabbia, tristezza, rancore, compassione e paura, soprattutto paura. Lui infatti ha una grande paura della morte (ovvero la sua disfunzione e riassemblamento, con i quali dovrebbe tornare “normale”), ma nonostante ciò l’affronta con una dignità che noi, ormai spesso, abbiamo perso.
Si arriva alla fine a un risvolto essenziale della trama, che mette contro umani e la nuova generazione di robot (l’ultimo modello, come potrebbero essere i nostri iPhone). La parte più importante è proprio qua: infatti lo scontro scaturisce dalla logica, dalla ferrea, irreprensibile logica dei robot. Una logica così giusta che però non è umana. Ecco che a questo punto arriva la risposta alla domanda posta all’inizio. L’agire dell’uomo non è sempre razionale, ma è spinto da qualcosa di più profondo, da un’irrazionalità che sgorga dall’inconscio.
Dicevano bene gli antichi che le azioni sono dettate dal cuore, sennò, se decidesse tutto il cervello, saremmo anche noi solo delle macchine, anche se di carne e ossa. Oltre a questa chiave di lettura ce ne sono altre, tra le quali vorrei proporne una in particolare: se si fa attenzione, ci si accorge infatti che i robot pericolosi sono quelli del nuovo modello, e questi sono tutti collegati a una base centrale che li controlla. Ecco quindi che si va delineando una sottile, ma spietata critica all’evoluzione della nostra società: sempre più controllata e dipendente, per questo vulnerabile.

Davide Agnelli / 1D Liceo Classico Galileo di Firenze