Un uomo come tutti noi – Racconto

Aprii gli occhi e mi guardai intorno.
Ero immerso nel traffico, in un ingorgo con tanto di grida, insulti e gestacci, ma con la piccola differenza che al posto delle macchine coi loro clacson e i loro fari c’erano dei carri di legno trainati pigramente da buoi. Lungo la strada si ergevano edifici in muratura costellati ai piani superiori da finestre minuscole, e al piano terra da portoni che lasciavano intravedere botteghe traboccanti di mercanzie. Sembrava l’illustrazione di un libro di storia dedicata alla Roma repubblicana; perfino i passanti erano vestiti a tema, coperti da ruvide tuniche o eleganti toghe. Un paio di matrone, avvolte nelle loro stole, conversavano all’angolo, attorniate dalle ancelle.
Mi venne naturale salire sul marciapiede (anche perché un paio di carrettieri bloccati in coda accanto a me avevano incominciato ad annoverarmi fra i destinatari delle loro ingiurie) e camminare senza una meta. Come in un sogno, non stavo a domandarmi perché mi trovassi in quel posto o come ci fossi arrivato, ma semplicemente mi limitavo a voltarmi qua e là a osservare quel vivido scorcio di un’epoca passata. Insomma, ero troppo stupito e meravigliato per pormi una qualsiasi domanda.
“Lo so, il traffico è proprio inclemente qui a Roma, non è vero?”
A parlare era stato un ragazzo appoggiato al muro, non molto in alto nella gerarchia sociale a giudicare dagli abiti.
“Ah, quindi questa è davvero…”
“La capitale del mondo, esatto. Prima o poi ci dovevi pure arrivare, no? Tutte le strade portano qui…” concluse facendomi l’occhiolino.
“Già, in effetti…” annuii. La mia mente si rifiutò di credere che tutto ciò fosse reale, perciò ci passai sopra piuttosto rapidamente. Mi guardai un attimo intorno per verificare che non ci fosse nessuno a portata d’orecchio, poi chiesi: “In che anno siamo?”
Il ragazzo si mise a ridere; dopo aver notato la mia espressione seria, tentò di darsi un contegno e si schiarì la voce: “Scusa, pensavo fossi ironico. È il settecentounesimo anno dalla fondazione della città.”
Feci un paio di calcoli, e conclusi che ci trovavamo nel 52 avanti Cristo. Non ero una cima in storia, ma sapevo che in quell’anno si stava concludendo la guerra in Gallia e che già erano iniziati i tumulti che sarebbero sfociati nella guerra civile. Non proprio un periodo pacifico, in effetti; ma era l’epoca di grandi personaggi come Cesare e Cicerone. Il primo era ancora di là dalle Alpi, ma almeno Cicerone sarebbe dovuto essere a Roma in questo periodo.
A tal proposito, mi sovvenne incredibilmente vivida e vicina nel tempo una lezione di latino, in cui il professore spiegava che proprio in quest’anno Cicerone aveva difeso di fronte al senato un certo Milone, che era stato accusato di avere ucciso il proprio rivale politico. Il ricordo della lezione, stranamente, a un certo punto si interrompeva, ma rammentavo che alla fine Milone era stato esiliato. L’orazione pronunciata in sua difesa non aveva avuto molto successo – a quanto sembrava – ma era comunque un discorso di Cicerone, e io, opportunità fantascientifica, avrei potuto assistervi…
“Ehilà, sei ancora con noi?”
La voce del ragazzo mi riscosse dai ragionamenti in cui m’ero immerso. “Cicerone. Dov’è Cicerone?” domandai a bruciapelo.
Il ragazzo s’era evidentemente abituato a ciò che ai suoi occhi doveva sembrare una grave (ma divertente) forma di pazzia. Indicò un agglomerato di edifici biancheggianti di marmo che si scorgeva al di sopra dei tetti in lontananza. “A occhio e croce direi in senato. È proprio oggi pomeriggio che dovrà difendere quel delinquente di Milone” spiegò.
Non mi sorprese la decisa presa di posizione del mio interlocutore: del resto Milone non era certo popolare fra i ceti più bassi, visto che l’uomo che si sospettava avesse ucciso era nientemeno che Clodio, il pupillo della plebe. Conclusi che dovevo andare in senato quanto prima. “Ok, grazie mille per tutto!” dissi “Addio!”
“Ok? Che vuol dire, amico?”
Lo lasciai alle sue elucubrazioni su una parola di là da venire, e mi avviai a passo sostenuto verso il foro.

Giunto infine di fronte alla Curia, il monumentale edificio circolare in cui già si era riunito il senato in attesa di quella famosa arringa, avvistai Cicerone mentre passeggiava avanti e indietro, parlottando fra sé e sé e accompagnandosi talvolta con gesti. Sebbene quell’enorme spiazzo pavimentato in pietra fosse disseminato di svariati capannelli, lui, Cicerone, era solo. Mi stupì la sua ordinarietà: sembrava un uomo di mezza età come molti, leggermente curvo e stempiato.
“È lei il signor Cicerone?”
Lui si voltò. Il viso rugoso era cordiale, tuttavia contratto in un’espressione pensierosa che con ogni probabilità gli derivava dall’incombente discorso e dalla tensione ben percepibile nell’aria. “Marco Tullio, in persona. Con chi ho l’onore di parlare?”
Impreparato, balbettai: “Diciamo che la conosco di fama, ecco. Posso farle una domanda?”
Cicerone pareva abbastanza scocciato – l’avevo interrotto mentre ripassava l’orazione, del resto – ma annuì con un sospiro di rassegnazione.
“Cosa si prova ad avere esiliato Catilina? Ad avere evitato una tirannide, insomma?”
Mi aspettavo che si sarebbe esaltato, oppure che avrebbe pronunciato una delle sue frasi a effetto; ma a quanto pareva, anche Marco Tullio Cicerone era un essere umano. E in quel momento di certo non se la passava bene. “Beh, ragazzo, esporsi non è stata una decisione facile. È stata più una scelta impulsiva e quasi suicida, ma ho avuto fortuna.”
“Cosa… cosa intende?”
“Non c’era un’alta probabilità di riuscita, anzi. Diciamo che ho dovuto farlo, e temo che dovrò rifarlo in futuro, ma ad essere sinceri, oramai non so più neanche cosa sia giusto.”
Non seppi più cosa rispondere. Avevo appena avuto un colloquio con uno di quei personaggi monolitici, incastonati nella Storia, su cui erano stati scritti libri e che ai posteri erano sempre apparsi come di granito: eppure, lui stesso non pareva convinto delle proprie azioni. Perfino a guardarlo in viso, emergeva come lui, al pari di tutti noi, fosse assediato da dubbi, avesse i suoi sogni e le sue paure.
“Scusami, ragazzo,” disse a questo punto “ma adesso devo proprio andare.”
Attraversò l’atrio con le sue gelide colonne e le pareti spoglie. Gli andai dietro come per istinto, senza ragionarci su, e in un baleno ci ritrovammo di fronte al portone di legno che accedeva alla leggendaria sala del senato.
Le ante si spalancarono, lasciando intravedere l’enorme sala circolare.

“Buongiorno, Carrozzieri.” La voce del professore di latino mi riscosse e con uno scatto mi rialzai dal banco.
“Accidenti, proprio sul più bello” borbottai, ancora intontito. La classe esplose in una risata, e il professore mi pregò di ripetere ciò che avevo appena detto. “Niente, prof, è solo che… ho fatto una specie di viaggio, ecco, e ho capito una cosa.”
“Mi fa piacere” ribatté, “del resto è a questo che servono le mie lezioni, no?” disse con un lungo sospiro. “Cosa hai capito, Carrozzieri?”
“Cicerone, lui e tutti gli altri… tutti i personaggi storici, insomma, erano persone normalissime. Come me e lei.”
Sebbene ci fossero molti modi in cui l’aula si sarebbe potuta riempire un’altra volta di risate, alle mie parole seguì il silenzio. Tutti l’avevano capito, ormai…
Perfino Cicerone era un uomo come tutti noi.
Lorenzo Paciotti – Classe 4E Liceo Classico “Galileo” di Firenze