Un lavoro da robot

Quante volte è capitato di sentire gridare all’allarmismo con l’espressione: “I robot ci ruberanno il lavoro”?
Inutile negare che la tecnologia spaventi i lavoratori, tant’è vero che sono sette milioni gli italiani che hanno paura di perdere il posto a causa dell’ascesa dell’intelligenza artificiale. Così almeno afferma il terzo Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, realizzato in collaborazione con Credem, Edison, Michelin e Snam. Il timore dello sviluppo tecnologico è talmente diffuso che ultimamente le politiche europee hanno proposto come soluzione ad un’eventuale totale robotizzazione del mercato il reddito minimo universale, ovvero una forma di solidarietà civile che retribuisca i cittadini disoccupati con un salario sufficiente a condurre una vita dignitosa. Questo sarebbe possibile grazie all’automazione dei processi produttivi che porterà un risparmio sui costi primari con un successivo abbassamento dei prezzi e aumento della domanda.
Eppure, come recita l’art.1 della costituzione italiana “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”. Potrebbe dunque l’uomo in un futuro utopico non avere più bisogno di lavorare? O questa è forse una prospettiva piuttosto distopica?
Per coloro che identificano il lavoro con una forma di auto-realizzazione certamente il futuro non si presenta roseo, dato che secondo le stime del World Economic Forum nei prossimi 5 anni di lavoro le 15 economie più importanti del mondo, fra cui anche l’Italia, vedranno una perdita netta di 5 milioni di posti di lavoro umani.
Tuttavia non si può condannare immediatamente l’evoluzione tecnologia; come ha fatto notare in un suo recente articolo la reporter di Quartz Sarah Kessler, anche all’inizio del diciannovesimo secolo in Inghilterra i telai automatici avevano diffuso un’avversione generale per le macchine, ma alla fine del secolo il numero delle imprese tessili era quadruplicato e così anche i salari dei loro dipendenti.
Per guardare ad un esempio più moderno basti considerare la celebre azienda di Jeff Bezos, Amazon. Negli ultimi tre anni ha aumentato il numero di robot da 1.400 a 15.000 e contemporaneamente i dipendenti del colosso americano sono passati da 124.000 a 341.000.
Il processo a cui si sta assistendo non è dunque l’estinzione del lavoro umano, ma un semplice “occupation change”, ossia una trasformazione delle occupazioni nel mercato del lavoro, come lo ha definito un report del 2013 firmato da Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne. Pertanto, se è vero che circa il 47% della forza lavoro oggi impiegata risulta a rischio automazione, si tratta di lavori poco qualificati e con una bassa richiesta di produzione creativa. Bisogna poi considerare anche la creazione di nuovi posti di lavoro: secondo McKinsey and Company (Società internazionale di consulenza strategica) circa un terzo dei lavori svolti oggi dagli americani 25 anni fa non esisteva. Così si stima che entro il 2022 scompariranno sì 75 milioni di posti di lavoro, ma se ne creeranno 133 milioni di nuovi.
Le aziende si troveranno ad avere bisogno di molti più profili creativi, con capacità di problem solving, sviluppato pensiero critico e abilità nelle relazioni pubbliche; ovvero la richiesta del capitale umano si concentrerà su quelle skill che ancora l’androide non è riuscito a sviluppare. Il lavoro diventerà così un mezzo importante per affermare la propria dignità, sviluppare l’innovazione e accrescere l’apprendimento, anziché un mero mezzo di sopravvivenza.
Alessia Priori / Liceo Classico Galileo di Firenze