Il quaderno della memoria – Racconto

Sapete cosa piaceva a Tom? I quaderni. Tom adorava i quaderni, le agende, i fogli e le penne. Tom era un ragazzo che non parlava spesso, uno di quelli che, se ti fosse capitato di entrare nella sua classe, l’avresti visto seduto al proprio banco, tutto preso da chi sa cosa, magari perso a fissare un punto da qualche parte. Tom non aveva molti amici, il suo migliore amico era Bart, il cane dei vicini che vedeva sempre quando tornava da scuola o dalla lezione di ginnastica artistica. Si, perché Tom faceva ginnastica artistica. Era sua madre che lo aveva iscritto, perché era sicura del fatto che fosse portato. E questo nonostante tutte le ragazzine che ogni volta lo prendevano in giro perché il body gli calzava male, gli faceva le cosce grasse e soprattutto era cucito a mano di un colore verdastro spaventoso. Tom odiava andare alle lezioni di ginnastica artistica, anche per il fatto che non sapeva fare niente, nemmeno il volteggio. Tom non sorrideva quasi mai e stava sempre tra le sue. Solo una cosa gli portava gioia: scrivere. Quanto gli piaceva l’odore della carta, quanti block notes teneva in casa e quante penne. Aveva un quaderno e una copertina per ogni tipo di cosa della quale voleva scrivere e la penna corrispondente. Non teneva libri nella libreria, ma quaderni. Aveva una quaderneria, insomma. Poteva scrivere su un computer, direte voi. No, un computer ha tutti quei tastini che fanno un rumore così fastidioso e uno schermo così luminoso di notte che non gli permettevano di rimanere sveglio fino a tardi come faceva con carta e penna. L’orario massimo che infranse fu le tre del mattino; andò a letto riposato perché aver scritto tutto quello che aveva dentro e se ne era finalmente liberato, ma anche stanco perché la mano non aveva più le ossa ma solo calli.
Tom aveva un quaderno speciale per ogni cosa, ma uno in particolare aveva una copertina talmente brutta che non potevi non notarla. Era nera, senza neanche uno dei suoi disegni, senza un adesivo o un pop-up. Non era del tutto rivestito, la parte dietro infatti era stata come strappata. Era un quaderno che teneva sempre sotto il cuscino e mentre dormiva ci teneva una mano sopra per evitare eventuali furti. Piuttosto strano, ma ne valeva la pena, mi ha detto. Era la sua memoria, mi ha detto. Ogni pagina corrispondeva a un giorno e ogni giorno aveva una parola o una frase che lo aveva caratterizzato secondo Tom. La prima pagina era chiamata “salve” , perché era la prima pagina. La seconda era intitolata (e anche conclusa s’intende) “non sopporto mia madre”, una frase che spesso Tom scriveva alla fine di ogni pagina, come fosse un promemoria. Non che la odiasse veramente, le voleva bene, ma la ginnastica artistica proprio non gli andava giù.
Andando più avanti nel quaderno, più o meno a metà c’erano le pagine dedicate all’estate, che Tom aveva volontariamente strappato dal giorno 20 luglio, nel quale partiva in villeggiatura con i suoi genitori, al giorno 31 agosto, giorno nel quale tornava a casa.
Il 10 giugno era andato a fare una gita al mare con l’intera classe, una sorta di gita di addio per la fine della quinta elementare, anno che Tom aveva odiato dall’inizio alla fine perché sapeva che avrebbe compiuto dieci anni e che avrebbe quindi dovuto di conseguenza iniziare le gare di ginnastica artistica a livello agonistico. “Roba seria”, diceva suo padre. E a ruota sua madre aggiungeva: “Il mio piccolo sta crescendo e vincerà delle medaglie, sono così emozionata! Non vedo l’ora di vederti sul podio con quei bei body che ti cucirà la nonna Sandra”. Tom non sapeva se erano peggio le medaglie, i podi, i body o sua madre. La parola della gita era stata “crema solare”, sottolineata di rosso e arancione più volte. Si era bruciato dalla testa ai piedi, perché sempre sua madre gli aveva spalmato la crema corpo anti-età. Lei la mattina era un po’ confusa, come in generale nella vita.
Body e creme solari a parte, Tom era davvero un ragazzo d’oro, era il ragazzo di cui mi ero innamorata. Quel giorno non era un giorno come tutti gli atri, no, era “IL” giorno per antonomasia, quello in cui me ne innamorai. Eravamo alle medie, terzo e ultimo anno. Non ho mai considerato Tom come un amico, né tanto meno come un ragazzo. Al contrario l’ho sempre guardato con occhi stralunati e a volte ho anche riso di lui, per i suoi capelli neri portati molto lunghi e che facevano intravedere degli occhietti verdi, molto belli. Sapevo che era uno di quei tipi… Quei tipi strani, chiusi, troppo timidi per poterci parlare. Quel giorno però successe ciò che non sarebbe mai potuto accadere, se non con un intervento magico, a parer mio. Tom teneva il famoso quaderno nero sotto al banco, sempre con la mano sopra, tranne durante i compiti in classe perché la professoressa non voleva che si tenesse nulla che poteva permetterci di scopiazzare, in quei casi se lo metteva sotto il golf e il busto diveniva quadrato, da morir dal ridere. Beh, lo prese e me lo porse. Io gli chiesi che cosa fosse e lui mi fece cenno di aprirlo. Esattamente alla data di quel giorno vi era stato scritto “aiuto”. La mia faccia si allarmò e divenne un po’ più pallida: di cosa aveva bisogno?
Dopo la scuola Tom venne a studiare da me, ma non lo dissi a nessuno. Tom ed io parlammo. Tom mi disse improvvisamente una cosa stranissima: che aveva bisogno di gioia. Mi disse proprio così. Io rimasi in silenzio dopo questa rivelazione, non avevo la minima idea di cosa rispondere e così scappai in cucina, dove lui mi seguì. Mangiammo qualcosa e bevemmo del succo ai mirtilli, sapevo gli piaceva tanto perché me lo aveva detto quando eravamo entrati in casa. Aveva detto che sentiva il bisogno di dirmelo. Mi faceva ridere, come sempre, anche se non glielo dicevo mai quando stavamo con gli altri e la facevo sembrare sempre una risata di scherno.
Non sapevo però dove prendergli la gioia. Non cresce sugli alberi, quella. Così decisi di dargli un bacio sulla guancia. Lui rimase esterrefatto e mi disse che ora era felice. Quel pomeriggio fu molto bello: ridemmo della ginnastica artistica, prendemmo in giro sua madre e suo padre imitando le loro voci, mangiammo ancora e bevemmo dell’altro succo ai mirtilli e gli diedi un altro bacio. Quando se ne andò, proprio sulla porta, scrisse una seconda parola su quel quaderno: dato che era stata una giornata speciale, le parole potevano essere anche più di una. Una era aiuto, di quella mattina. L’altra era amore. Ero molto felice e mi piaceva quel quaderno. Da quel giorno diventammo amici inseparabili. Anche se le parole non erano e non sono ancora il suo forte, non m’importa. Prima di tutto ciò di cui aveva bisogno era il suo quaderno e le sue parole scritte lì, adesso è riuscito a staccarsi un poco e non lo tiene più sotto il cuscino né sotto il golf durante le verifiche.
Siamo ancora fidanzati ed entrambi frequentiamo il quarto anno del liceo. Mi piace ancora tanto e vorrei che potesse non finire mai. Per fortuna ho “la sua memoria”, quella non ci abbandonerà mai e all’interno di essa ogni singolo giorno della nostra piccola relazione adolescenziale è descritta da una parola o da una frase. Non me ne dimenticherò mai.
Tom è la mia gioia e la mia memoria, e non ha nemmeno più bisogno di aiuto. Ha lasciato la ginnastica artistica: adesso fa karate. E io sono Olly.
Sofia Ranfagni Picchianti
Liceo Classico Galileo di Firenze – Classe 3C