La fortuna di un giorno di sole – Racconto

Il sole era già alto nel cielo quando mi alzai, d’altronde in Africa o piove o c’è un sole che spacca le pietre. Andai a fare una veloce colazione e poi su in macchina: destinazione Nairobi. Dopo poco meno di un’ora arrivai alla meta: un campetto da calcio con attorno un po’ di terra battuta. Il luogo era brulicante di bambini con magliette e pantaloncini, per la maggior parte scalzi o con sandali, che giocavano e urlavano all’impazzata. Oltre a me c’erano anche altri volontari che erano arrivati da chissà dove per aiutare quei poveretti. Subito intravidi quello che sembrava il capo: un uomo alto e massiccio d’aspetto ispanico. Mi avvicinai e masticando il mio discreto inglese cercai di estrapolare dal suo, che invece era pessimo, informazioni sul mio compito per quel giorno; alla fine capii che dovevo andare in mezzo ai bambini e semplicemente farli giocare. Addentrarsi in un covo di serpenti forse sarebbe stato più facile, ma alla fine mi decisi ad andare. Subito tutti mi si strinsero attorno alle gambe e mi chiesero dei soldi, che purtroppo non avevo nemmeno per me.
Dopo immani fatiche comunque riuscii a dividerli in vari gruppi e farli giocare. La maggioranza dei maschi si accontentarono di poco e datogli un pallone se lo fecero bastare per svariate ore, gli altri invece furono un osso maggiormente duro. Quasi tutte le bambine si misero a ballare seguendo una ragazzina un po’ più grande che davvero mi risparmiò un bel po’ di fatica, e ai rimasugli dei due macro-gruppi insegnai “morra cinese” e inaspettatamente l’apprezzarono così tanto che ci giocarono tutto il tempo.
Finalmente avevo finito e mi restava un po’ di tempo prima di pranzo per riposarmi come Dio il settimo giorno, ma, poiché non sono Dio, non ebbi tempo di riposarmi perché arrivò da me un bambino sfuggito ai miei controlli e non inserito in nessun gruppo, che subito iniziò a parlarmi e si rivelò alquanto petulante.
Si avvicinò imperterrito e alzando i tacchi mi chiese: «Perché le nostre famiglie hanno pochi soldi? E perché la gente per questo ci considera sfortunati?», oltre al fatto che parlasse un inglese (cosa alquanto insolita) tutto suo e con un accento a me ignoto, la domanda era davvero ostica al mio cervello.
«Be’ ecco, vedi… certe volte… diciamo che le cose… sì, insomma… non vanno proprio…» iniziai a rispondere non troppo convinto. Non mi lasciò finire, e con una dose di spavalderia mai vista in un bimbo disse: «Visto che non lo sai, te lo dico io. Per questo motivo ti racconterò una storia». Ero interdetto. Poi, quando finalmente mi decisi a chiudere la bocca, iniziò.
«C’era una volta, molto tempo fa, un principe, ricco e potente. Il principe aveva un grande regno e un meraviglioso palazzo, nel quale c’erano i tesori più belli che si potessero mai desiderare. Il principe aveva anche una moglie bellissima, la più bella di tutte, e indossava sempre i vestiti più belli e mangiava sempre i cibi più buoni. Tutti lo consideravano davvero l’uomo più fortunato su tutta la terra. Egli era però anche superbo e gli piaceva vantarsi con gli altri della sua fortuna. Un giorno il principe decise di andare a fare un giro in città sia per vederla, ma soprattutto per mostrare a tutti com’era fortunato. Mentre camminava per il mercato gli capitò di posare lo sguardo su un anziano mendicante che era al lato della strada. Il poveretto era zoppo e non riusciva nemmeno più ad alzarsi. Il principe decise di cogliere al volo l’occasione e disse: “Guardate tutti come sono ricco e potente, quante ricchezze ho e come sono fortunato, al contrario di quest’uomo”. Il vecchio però si mise a sedere meglio che poteva e gli rispose: “In verità, sai, figliolo, credo di essere più fortunato di te. Poiché sarò anche più povero e più malato, ma io ho superato molti inverni, tu invece hai solo placidamente trascorso molte estati, e per farlo ci vuole fortuna. Inoltre arrivare alla mia veneranda età è difficile, anche per un principe fortunato. Infine ho rischiato di morire molte più volte di te e molte più volte di te ho avuto la fortuna di salvarmi, per essere qui oggi a raccontartelo. Perciò ti do solo il consiglio di un umile straccione: la fortuna non si misura in monete d’oro, ma in giorni di sole. E io penso di essere molto fortunato ad averne visti molti”. Il principe fu talmente colpito da tali parole che decise di assumerlo come consigliere reale. Il saggio accettò, ma non volle mai ricevere in cambio dei suoi servigi denaro. E quando fu troppo vecchio per lavorare, andò a trascorrere le giornate sotto un albero grosso e vecchio almeno quanto lui, contento di veder sorgere il sole su altri fortunati giorni».
Io ero basito e incantato da quella storia. Ma ancora non avevo capito perché l’avesse raccontata proprio a me. Cosa potevo fare io per cambiare le cose? Il bambino intanto se ne stava andando a mangiare. Gli urlai il mio dubbio e mi rispose: «Tranquillo: hai ancora molti anni per pensarci».
Andai mogio mogio a mangiare e guardando tra i tavoli, però, non lo vidi. Lo cercai per tutto il giorno e per i seguenti, ma non lo rividi mai più. Non conoscevo nemmeno il suo nome.
Davide Agnelli / Liceo Classico Galileo di Firenze