Essere o consumare?

Impariamo a crescere in modo sostenibile.

“Le future generazioni, quelle che vivranno fra cinquantamila anni, probabilmente ci battezzeranno ‘popolo dei combustibili fossili’ e chiameranno la nostra epoca Età del carbonio, così come noi ci riferiamo a epoche passate come all’Età del ferro o all’Età del bronzo”. È questo ciò che afferma Jeremy Rifkin, presidente di Fondazione sulle Tendenze Economiche e consulente dell’Unione europea nel suo libro «La terza rivoluzione industriale». Negli ultimi decenni, infatti, il nostro modo di vivere è profondamente cambiato. Viaggiamo e viviamo più a lungo, produciamo e consumiamo sempre di più, ma i  trasporti con i quali ci spostiamo, i farmaci con i quali ci curiamo, gli alimenti di cui ci nutriamo e quasi tutti i materiali da costruzione, il riscaldamento, l’energia elettrica e l’ illuminazione di cui si servono  tutti i settori economici per soddisfare le richieste dei consumatori dipendono tutti  dai combustibili fossili. Alimentazione (comprese le bevande), abitazioni e mobilità sarebbero secondo un’analisi della European Environmental Agency in nove Stati membri dell’UE la causa principale della maggior parte delle pressioni ambientali e ciò dimostrerebbe che sia proprio il consumo individuale a portare alla creazione diretta di esse. Ormai da tempo parlare di “crescita” in ambito economico, politico e sociale equivale alla scoperta e alla progettazione di nuovi metodi e strategie che abbiano come unica finalità l’aumento della corsa ai consumi. La strada della “sostenibilità” per le aziende si converte nella più rischiosa delle possibilità e così la maggior parte di esse decidono di effettuare un meccanismo di obsolescenza pianificata, ovvero l’utilizzo di vere e proprie procedure psicologiche per creare bisogni e invogliare il consumatore a buttare i prodotti, anche se perfettamente funzionali. Spesso, perciò, i prodotti che compriamo sono costruiti volutamente in maniera tale da non permettere una riparazione se non a costi elevati, indirizzando  il consumatore  all’acquisto di nuovi prodotti a prezzi accessibili, la “data di scadenza” degli alimenti non è soggetta a criteri scientifici o almeno non li conosciamo; sentiamo sempre più spesso l’esigenza di cambiare modello di automobile e vestiti nell’armadio per seguire i rapidi cambiamenti della moda e del design, mentre siamo costantemente esposti a pubblicità che sin da piccoli ci convincono a consumare e possedere sempre di più. L’economia “dell’usa e getta” provoca cambiamenti climatici, incentiva il consumo di materie prime e di altre risorse e produce l’inquinamento ambientale. Ogni singolo individuo può fare la differenza ovviamente comprando di meno e facendo riparare i prodotti difettosi invece di cambiarli, ma forse sarebbe ancora più costruttivo cambiare in maniera più completa e profonda il nostro stile di vita. Secondo l’economista e filosofo francese Serge Latouche rivedere i valori in cui crediamo sarebbe il primo passo per rifondare un’economia in grado di essere sostenibile. Latouche è il principale promotore dell’idea della decrescita, una filosofia che critica l’ideologia del produttivismo e del consumismo e si pone come obiettivo evidenziare il fallimento del sistema capitalistico e propone un’alternativa concreta di sviluppo che possa fondarsi secondo il circolo virtuoso delle 8 R (cioè Rivalutare, Ricontestualizzare, Ristrutturare, Rilocalizzare, Ridistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare).  Secondo l’economista francese oggi non si produce per soddisfare dei bisogni, ma con la finalità unica di produrre, mentre si dovrebbero realizzare dei prodotti di buona qualità e diminuire così lo spreco. Egli stesso dichiara: “Se non c’è più bisogno di produrre tanto, allora bisogna ridurre gli orari di lavoro, lavorare meno per lavorare tutti e ritrovare il senso dell’ozio e del tempo libero che permette di fare cose molto più soddisfacenti del tempo speso a lavorare.”

Insomma, dovremmo riscoprire l’importanza della qualità e rimparare ad anteporla alla quantità: del cibo che consumiamo, dei prodotti che acquistiamo, degli spostamenti che facciamo, ma anche delle attività che decidiamo di svolgere e del tempo che abbiamo a disposizione sulla Terra, una Terra che abbiamo considerato  come uno dei tanti oggetti che possediamo e che abbiamo trattato per troppo tempo senza rispetto, senza considerare che quando sarà distrutta a causa dei nostri comportamenti irresponsabili non potremmo comprarne una nuova e nemmeno aggiustarla con pezzi di ricambio. Perciò proprio come afferma Latouche:” Bisognerebbe mutare questa idea che vede gli esseri umani come i padroni della natura, perché non possiamo continuare a distruggerla fino in fondo. Dobbiamo imparare a vivere in armonia con essa, non trattandola più come predatori, ma come dei buoni giardinieri”.

Cecilia Andreozzi, liceo Giulio Cesare di Roma