Nel mondo esistono ancora i campi di concentramento

Un orrore che ci riguarda tutti

Oggi, a distanza di 76 anni dalla fine dello sterminio nazista degli ebrei, sono sempre più frequenti episodi di odio razziale ed esistono ancora strutture non dissimili dai campi di concentramento. Dai kwanliso in Corea del Nord ai laogai cinesi, dalle colonie penali australiane all’inferno libico, sino agli Stati Uniti d’America e all’Italia, milioni di persone sono private della loro libertà per motivi politici, etnici e religiosi, rinchiuse in strutture detentive in cui non esistono diritti umani. 

Li chiamiamo in modo diverso, ma il risultato è simile: estraniare intere parti di popolazione dalla vita. Basta pensare alla Corea del Nord e ai kwanliso, veri e propri campi di prigionia, in cui sono rinchiuse centinaia di migliaia di persone, bambini compresi. I detenuti sono prigionieri politici, confinati senza processo e senza una data di uscita, spesso con l’unica colpa di essere parenti di un presunto dissidente. Le testimonianze di ex detenuti e funzionari rivelano che i prigionieri sono denutriti e costretti a lavorare in condizioni estremamente precarie e pericolose con cibo insufficiente e poche ore di sonno. Nei kwanliso vivono dalle 80mila alle 120mila persone.

Ci sono campi di concentramento anche in Cina e si chiamano laogai. Qui vengono detenuti prevalentemente donne e uomini che appartengono a minoranze etniche, ma anche dissidenti politici. È il caso, per esempio, degli uiguri, un’etnia di religione islamica, che viene torturata, costretta al lavoro forzato e a convertirsi. Secondo rapporti stilati da organizzazioni internazionali, da un milione a un milione e mezzo di uiguri sarebbero finiti senza processo in centri di rieducazione con lo scopo di eliminare tutte le presunte idee estremiste non compatibili con il regime. L’ong Human Rights Watch  nel suo rapporto annuale 2020 sui  diritti umani in Cina, invita la comunità internazionale a respingere quella che ha definito come “l’oppressione più brutale e pervasiva che la Cina ha visto in decenni”. Alcune stime riportano più di quasi otto milioni di detenuti in tutti i laogai.

Ci sono poi campi di “concentramento” in Myanmar, in Malaysia, in Bangladesh, in cui vivono i perseguitati Rohingya. Ci sono le isole di Christmas, Nauru e Manus, in Australia, in cui vengono ammassati migranti e richiedenti asilo intercettati dalla marina australiana. E ci sono da noi. Hanno nomi diversi, si chiamano Cpr, Centri di Permanenza per il Rimpatrio, ma sono di fatto strutture in cui vengono rinchiusi i richiedenti asilo che devono essere identificati. Ne hanno chiesto la chiusura diverse organizzazioni a causa della permanenza eccessivamente lunga dei migranti nelle strutture. Si potrebbe poi parlare dei migranti provenienti dalla Siria, scappati per fuggire dalla guerra, che sono stati ammassati in Turchia dopo gli accordi con l’Ue. Oppure si potrebbero citare gli episodi avvenuti al confine fra Stati Uniti e Messico nel 2019, dove sono stati trattenuti 250 minori non accompagnati e in condizioni disumane. Si potrebbe, insomma, continuare e citare altri casi, e dimostrare quanto ancora oggi in Asia Centrale, in Eritrea, nella Repubblica Centrafricana, in Siria, in Iraq ed in molti altri Paesi, anche insospettabili, i diritti umani siano ancora terribilmente violati. 

“Mi hanno spogliato di tutto ciò che avevo, mi hanno manganellato e spinto nel fuoco, causandomi una ustione al braccio” questa è la testimonianza di un migrante afgano bloccato al confine croato-bosniaco. La sua è la storia di altre 2500 persone che, secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, sono bloccate fuori dal sistema di accoglienza vicino alla città di Bihac, nella località di Lipa (nord-ovest della Bosnia-Erzegovina). La situazione è diventata ancora più critica quando il campo profughi è andato a fuoco il 23 dicembre scorso: i migranti si sono riversati nelle vicine foreste o in abitazioni di fortuna nell’area della cosiddetta “Factory”. Quest’ultima è un complesso industriale abbandonato e in gran parte pericolante in cui le persone trascorrono le giornate senza disporre di cibo, acqua potabile e riscaldamento, con temperature esterne che possono raggiungere i -15 gradi. Molti di loro non hanno nè vestiti nè calzature per affrontare le rigide temperature.

Dopo che il campo di Lipa è andato a fuoco, nonostante le difficoltà della pandemia da Covid-19, è venuta in soccorso dei migranti la società civile italiana, Solidarity Action, una rete internazionale di persone e realtà che intervengono in aree di crisi e che non hanno voltano le spalle a una tale emergenza umanitaria.                                                                                      

Questo è uno dei tanti esempi di solidarietà che ci ricordano, come dice Vasilij Grossman ne “La Madonna Sistina”, che l’umano nell’uomo non può essere estirpato, nonostante tutto, e per questo è immortale nell’universo. Nonostante i milioni di morti, le atrocità, le tragedie, è la vita che trionfa sul male e sull’aritmetica della ferocia e dobbiamo essere noi a non lasciar morire l’umano nell’uomo e a continuare a credere che vita e libertà siano una cosa sola, che vivrà in eterno e vincerà.

E perché questo sia possibile è importante non chiudere gli occhi di fronte a ciò che avviene oggi, ricordandosi delle migliaia di persone che stanno soffrendo la fame, la sete, il freddo e le malattie in paesi martoriati dalle guerre e dalla repressione, nel tentativo di arrivare in Europa, nella nostra Europa, in cui spesso non trovano altro che frontiere chiuse.

Chiara Lipari, 4E