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Ai cartelloni rispondono con i proiettili: benvenuti in Myanmar, dove la democrazia è sotto attacco

Dall’estremità di una stradina scalcagnata, che corre veloce tra i sobborghi di Myitkyina,  giungono, minacciosi, rumori ormai noti. Tra i manifestanti, radunatisi a centinaia nella limitrofa piazza, cala, d’un tratto, il silenzio. Verrà di nuovo il momento dei canti di protesta: ora, bisogna prepararsi a rispondere. Il rantolio del motore delle camionette, mescolato al suono sordo degli scudi battuti con forza sul terreno, interrompe la propria marcia trionfale. Allineatisi, i militari e i poliziotti in forza all’esercito birmano rivolgono, sprezzanti, lo sguardo alla folla loro antistante. Attendono un ordine, o forse solo l’occasione per intervenire e compiere l’ennesima strage.

I diciotto connazionali deceduti, trapassati dal piombo dei fucili, non hanno espiato la colpa del comune appello, diffusosi repentinamente di città in città, con cui gli uomini in divisa si sono visti, in tutto il territorio, richiamati al rispetto dei diritti e delle libertà individuali. Poco importa dei 30 feriti, e soprattutto degli oltre 850 dissidenti pacifici arrestati: le disposizioni dello stato d’emergenza non prevedono alcuno sconto. Tra la folla, pietrificata, si fa largo una donna: una suora, Ann Nu Thawg. Nella sua testa risuonano, come un boomerang, le notizie giunte dalle città vicine; si inoltra nella terra di nessuno, decisa ad impedire che venga somministrata, ai suoi concittadini, l’amara medicina intrisa di pugni, proiettili e orride dimostrazioni di violenza che uomini e donne, in tutto il Myanmar a cui è tanto devota, sono stati obbligati ad ingollare. Con lucidità e naturalezza si inginocchia, quasi assorta in una dimensione sovrannaturale, e comincia a pregare. Trema, inerte, di fronte ai soldati; il suo volto è rigato dalle lacrime, ma non smette, anzi prosegue in modo incessante.

Prega, perché nella religione individua l’unico appiglio a cui aggrapparsi, con le grame forze rimaste in corpo, per rifuggire dalla tragica realtà lei circostante; per ritornare, anche solo un istante, ad assaporare il gusto smarrito della pace; per riconciliarsi sotto la guida di un’autorità equa, democratica, benevola. Un’autorità che per anni, tra i cittadini birmani, ha trovato corrispondenza diretta in un nome ed un cognome: l’ex premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Designata dalla stampa internazionale come colei che avrebbe guidato il Myanmar verso una decisa transizione democratica, si è vista limitata, minacciata, nell’esercizio delle proprie prerogative, da schiere di ministri legati ad un esercito ancora troppo potente ed autoritario, i cui ideali poggiavano e poggiano tuttora su pilastri inconciliabili con il programma di riforme presentato. L’avallo concesso ai soldati responsabili dei massacri e delle persecuzioni perpetrate nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya ne ha compromesso, irrimediabilmente, la credibilità estera; non ha inficiato, tuttavia, sulla fiducia di cui gode, tuttora, tra i suoi elettori, che in lei riconoscono l’estremo, strenuo baluardo in grado di tutelarne diritti e libertà. Da ormai un mese la sua voce ha cessato di spargere i semi della tolleranza, dell’equità, soffocata dal golpe ordito dalle avare, prive di alcuno scrupolo forze militari, guidate dal sanguinario generale Min Aung Hlaing. Ecco a voi tutti il Myanmar, l’ultima dittatura militare del ventunesimo secolo, i cui vertici del nuovo esecutivo hanno affermato, con fierezza, “di aver riportato il paese alla normalità”.

Una narrazione favolosa, inconciliabile e profondamente stridente con la realtà oggettiva. Perché oscurare ogni piattaforma social, sfruttandola a fini meramente propagandistici, non collima con il concetto di quotidianità; e imporre il divieto di riunioni ed assembramenti poiché potenziali occasioni per manifestazioni di dissenso, tantomeno. Alla scellerata risposta armata alle manifestazioni pacifiche, esplose con veemenza in tutto il paese, il suolo birmano si è bagnato, irreversibilmente, del sangue dei suoi veri cittadini. Speravano, nelle sedi amministrative di Naypyidaw, di infondere paura, terrore: e forse sono riusciti nel loro intento. Eppure, con le tre dita alzate, in migliaia si sono raccolti nuovamente nelle piazze. “Qualcuno di noi morirà, ne siamo consapevoli. Ma Yangon, Mandalay e Sagaing non rimarranno a lungo il palco del vostro grottesco affronto alla libertà. Mai i vostri divieti potranno limitarci; alla fine, siatene certi, vinceremo”. Si riconferma, schietta, ineccepibile, la risposta ad uno dei grandi punti interrogativi della storia: il peggior nemico di una qualsiasi dittatura sarà sempre, inesorabilmente, la semplice, tagliente parola. 

 

Articolo di Torri Martino