La microscopia crioelettronica

La microscopia crioelettronica è una tecnica di microscopia per la quale le sostanze campione sono idratate e portate a temperature ampiamente sotto gli 0°C, venendo raffreddati in pochi millisecondi in modo che l’acqua non possa cristallizzare (evento che distruggerebbe le biomolecole), ma assuma piuttosto uno stato vitreo; pertanto, il campione resta idratato e mantiene la sua struttura nativa.

Nella microscopia elettronica tradizionale, i campioni devono essere completamente essiccati, poiché il fascio di elettroni che permette di ottenere l’immagine deve essere confinato nel vuoto, distorcendo enormemente le molecole biologiche; tuttavia, come dimostrato per la prima volta nel 1974 da Ken Taylor e Bob Glaeser, è possibile lasciare le biomolecole idratate congelandole repentinamente, prevenendo la deidratazione e preservando il campione.  La microscopia crioelettronica consente, dunque, di determinare le strutture di complessi fragili o flessibili, molto difficili da cristallizzare. Questa metodologia offre una risoluzione di circa 0,3 nanometri.

L’impiego della tecnica comincia con la scelta di un opportuno supporto per l’esemplare di sostanza di cui si vuole definire la natura. Il supporto è detto “grid”, in quanto deve avere una struttura altamente reticolata. Spesso viene adoperato un disco metallico di rame, oro, nichel o molibdeno avente un diametro di pochi millimetri e ricoperto da un sottile strato di carbonio o grafene. Sono più che sufficienti tra i 2 e i 5 microlitri di soluzione contente la specie biologica; bisogna rimuovere gli eccessi, qualora ve ne fossero, con carta da filtro. Il passaggio fondamentale consiste, tuttavia, nel raffreddare il campione il più velocemente possibile. Per fare ciò, vengono utilizzati dei particolari liquidi detti “criogeni”; si usano, per esempio,  il propano o l’etano liquidi (temperatura di ebollizione: -183°C) tenuti in questo stato da azoto liquido (temperatura di ebollizione: -196°C). Successivamente al campione è trasmesso un fascio di elettroni che passa da uno strumento noto come “electron gun” (letteralmente, ‘cannone elettrico’) attraverso una colonna ottica formata da una serie di lenti fino a raggiungere lo schermo ricettivo finale.

Nei moderni esperimenti, quando si esegue la Cryo-EM vengono acquisite migliaia d’immagini, denominate “micrographs”; ognuna di esse contiene centinaia di singole macromolecole, dette “particles”, distribuite nello strato vitreo, per questo motivo questa particolare modalità di procedere è definita “Single Particle Cryo-Electron Microscopy”, cioè ‘a singola particella’. Il risultato finale è un insieme contenente centinaia di migliaia d’immagini di singole molecole da analizzare e combinare secondo l’orientazione e la conformazione assunta da ciascuna, con lo scopo di “sommare” il segnale: i ricercatori hanno sviluppato un algoritmo per tracciare il movimento tra ogni fotogramma, ottenendo in questo modo un modello tridimensionale della biomolecola.

L’utilizzo degli elettroni, invece che dei raggi X (come avviene, per esempio, nel caso della cristallografia a raggi X), presenta una serie di differenze non irrilevanti: i raggi X interagiscono soltanto con la nuvola elettronica esterna degli atomi, mentre gli elettroni interagiscono anche con il nucleo; gli elettroni hanno più grandi sezioni di dispersione (“scattering”) rispetto ai raggi X (di conseguenza, determinano danni da radiazioni più gravi); essendo gli elettroni particelle cariche, al contrario dei raggi X, possono facilmente essere polarizzati da lenti elettromagnetiche, pertanto è relativamente semplice costruire un microscopio che utilizzi elettroni, ma quasi impossibile realizzarne uno che funzioni con i raggi X.  

Il premio Nobel per la chimica dell’anno 2017 fu assegnato a Richard Henderson, Jacques Dubochet e Joachim Frank. Henderson riuscì, sostituendo l’acqua del campione con una soluzione di glucosio, ad ottenere nel 1975 un’immagine tridimensionale della batteriorodopsina, quantunque questa risoluzione non potesse estendersi a determinate tipologie di macromolecole. Fu Dubochet a comprendere che, velocizzando di molto il processo di solidificazione da acqua a ghiaccio, era possibile far assumere all’acqua uno stato “vitreo”, avente disposizione abbastanza simile a quella disordinata dell’acqua liquida. Infine Frank sviluppò l’algoritmo, governato da una funzione matematica (la “trasformata di Fourier” e il teorema della sezione centrale), mediante il quale fu possibile ottenere immagini tridimensionali secondo il procedimento sopra descritto.  Fu così possibile nel 2013 riuscire a definire la struttura di un ribosoma (un organello della cellula necessario per la sintesi delle proteine) a risoluzione atomica.

Michelangelo Grimaldi