Storia di un esodo: intervista a Magda Rover

“Massacri delle foibe” è la locuzione con cui vengono designati gli eccidi perpetrati nella seconda metà del Novecento dai partigiani jugoslavi di Tito e dai servizi militari segreti jugoslavi aventi sede a Belgrado e riuniti sotto il nome di OZNA ai danni delle comunità italiane istriana, dalmata e giulio-veneziana.

Tra le cause degli infoibamenti non bisogna dimenticare l’odio covato dagli jugoslavi rampollato dalla deportazione e l’internamento perpetrato dai fascisti di civili e militari jugoslavi in campi di concentramento al confine fra la zona italiana e quella jugoslava dell’Istria durante la Seconda Guerra Mondiale.

Magda Rover, nata ad Albona, città italiana fino al 1947 e da allora città croata, esule istriana attualmente residente in Vasto, ci racconta la sua storia…

Le città precipue dell’Istria sono Fiume, Trieste e Pola.  Albona è una città istriana, in provincia di Pola, locata lungo il corso del fiume Quarnàro e vicino un’altra città dotata di una certa importanza, Pisino. Il paese “su quel selvaggio scoscendimento” (D’Annunzio) e che i croati vorrebbero, ora, rendere capoluogo di regione fu a lungo un feudo austriaco e, dunque, proprietà degli Asburgo. È in Albona che nacque Magda Rover, esule istriana attualmente residente in Vasto, che oggi ci racconterà la sua storia.

I genitori della Rover erano giovani maestri e, quando questa aveva due anni, ad Albona fu costruita una scuola nuova, bella, che aveva tre aule di sotto e sopra due appartamentini, uno più grande e uno più piccolo; presso il primo abitava la famiglia della signora Rover, mentre il secondo era vuoto. Un’altra scuola presente presso la sopradetta cittadina era la scuola comunale, fatta costruire da Maria Teresa d’Austria.

Quando a Francesco Giuseppe, marito di Sissi, fu ceduta l’Istria, questi si arrabbiò con gli italiani, in quanto gli avevano “sottratto” il Lombardo-Veneto. In aggiunta, la costituzione popolare istriana era eminentemente italiana (sebbene ci fossero anche croati, qualche ungherese etc.), dunque la maggioranza della popolazione voleva che l’Istria fosse riannessa all’Italia.

A seconda dei periodi, in Istria ci furono ora più italiani ora più croati, poiché, quando gl’italiani venivano perseguitati, chiaramente si riducevano in numero, poiché si scappava. Il 12 novembre 1866 Francesco Giuseppe promulgò un decreto in cui ordinava di procedere alla snazionalizzazione dell’elemento italiano in Südtirol, Dalmatien (Dalmazia), Küstenlande (Venezia-Giulia) e ingiunge die Germanisierung oder Slawisierung (la germanizzazione o slavizzazione) degli italiani nelle predette regioni. Altresì, gli italiani non potevano avere posti di comando né nell’esercito né in politica né nell’ambito del sociale e, durante la Seconda Guerra Mondiale, molti di loro furono deportati.

Il 25 aprile 1945, in Istria, la guerra non era ancora finita. Dopo questa data, Tito, che non era più ostacolato dai tedeschi, tentò di uccidere quanti più italiani potesse. Nel ’43, in seguito al proclama di Badoglio dell’8 settembre, gli italiani credettero che la guerra fosse finita, dunque, molti soldati italiani, rimasti senza ordine, tentarono di far ritorno alle proprie case. Qui Tito era pronto ad arrestarli e molti scapparono. Dopo circa un mese dall’inizio della calata dei tedeschi lungo la penisola, questi giunsero a Pola. Pola era una città che riuniva una vasta serie di uomini d’arma (bersaglieri, marinai, aviatori, esercito, finanza) e, in capo a tutti, era rimasto un comandate della marina cui fu proposto un accordo con i tedeschi: se gli uomini d’arma della città avessero accettato di farsi deportare, Pola sarebbe stata salva. E così fu. Per un periodo Pola fu tranquilla, eccezion fatta per i bombardamenti degli anglo-americani. I soldati fatti prigionieri dai tedeschi riuscirono a scappare intorno al ’44 e rientrare in Istria, sennonché furono catturati dai titini: almeno un centinaio furono fucilati subito, altri ammazzati in vario modo oppure internati. Per esempio, il comandate supremo fu deportato presso l’isola Calva, terribile campo di prigionia di Tito; qui gl’internati erano obbligati a spararsi fra loro, pestarsi, spiarsi ed erano malamente torturati.

Una volta che Pola fu conquistata da Tito, i suoi partigiani jugoslavi si spinsero anche a Pisino, ove fu catturato il padre della signora Rover. Questi fu fatto prigioniero insieme ad altri 280 uomini, di cui molti furono buttati nella foiba di Vines. Il padre della Rover si salvò, fortunatamente, poiché su trovava fra gli ultimi, sebbene fosse decisamente malconcio. Sua moglie lo cercò a lungo, arrivando a Pisino dopo aver percorso, incinta, diciassette chilometri a piedi e, una volta giunta, fu costretta a lasciarlo lì, ferito, reperire un carretto, caricarlo su e portarlo a casa, data l’assenza di ospedali funzionali e di mezzi di trasporto in seguito al cannoneggiamento di Pisino.

“Lo curavano lei e mia zia, che era venuta a trovarci da Zara; infatti, io ricordo ancora il mio papà bendato e noi dovevamo stargli lontano, poiché non sopportava né la luce né il rumore” racconta la signora Rover. “La mamma del mio papà era morta quando questi aveva sei anni, quindi prima è stato con la nonna materna e poi, dato che il papà era andato in America, gli pagava il collegio a Possagno” racconta ancora Magda Rover.

Durante la Prima Guerra Mondiale, sul fronte del Montello, del Grappa e del Piave il padre della Rover aveva esercitato la professione di daziere in quelle zone, cosa che si rivelerà utile, poi, per la sua famiglia. Infatti, giunti a Pederobba, “mio padre è andato a cercare la pensione dove stava quando aveva fatto il daziere da giovane, ma i proprietari, che avevano paura dei partigiani, non volevano aprire. Una volta convinti, ci hanno riferito che i proprietari di quella locanda erano cambiati e che ora ne tenevano un’altra, così ci siamo incamminati e poi l’abbiamo trovata”. “Abbiamo impiegato due notti e tre giorni solo per venire da Pola a Possagno, nel Veneto. Abbiamo preso vari treni quando siamo scappati. Il primo, che ci portava a Trieste, si è fermato, perché c’era un altro treno attraverso le rotaie, allora siamo dovuti scendere; io ero svenuta, perché avevo visto i morti nella locomotiva deragliata e mi sono, poi, svegliata in piedi, lì davanti. Una volta scesi, abbiamo dovuto attraversare il vallone, superare il treno deragliato e aspettare la locomotiva da Trieste che non arrivava mai, perché anche quella andava a passo d’uomo, per via delle mine. Una volta arrivata la locomotiva, siamo saliti e siamo giunti a Trieste, dopodiché siamo arrivati a Mestre, dove abbiamo cambiato treno.

Ad un certo punto, durante il tragitto, si sono sentiti i bombardieri, il treno si è fermato, mio padre è sceso, noi siamo rimasti su con la tata, una ragazza di sedici anni, Vittoria; improvvisamente, il treno ha chiuso le porte ed è ripartito con mio padre ancora giù; però, è andata peggio a Petronio, lui era scappato il 16 dicembre, e il suo treno è stato spezzonato (cioè buttavano le bombe sul mezzo di trasporto per spezzarlo) e ci sono stati, mi pare, 250 morti; molti sono stati portati all’ospedale di Padova e questo Petronio, che era di Pirano, è stato colpito da una scheggia ed è morto. Noi abbiamo fatto la stessa tratta, ma non siamo stati bombardati.

Tornando al nostro viaggio, il treno è scappato con noi dentro e mio papà giù, poi, però, c’è stato un allarme, il treno è tornato indietro, allora io sono scesa e ho visto il mio papà in fondo in fondo che cercava di salire, allora io gli sono corsa incontro e ci siamo ritrovati. Da Mestre siamo giunti a Padova e da qui siamo arrivati a Pederobba, dove finalmente siamo potuti andare a letto. Solo che mio papà, purtroppo, la mattina ci sveglia prestissimo e io non ero capace di alzarmi presto. Fino ad allora eravamo stati senza mangiare, tant’è vero che quando abbiam fatto la colazione, il mio fratellino più piccolo, di quattordici mesi, ha bevuto tanto di quel caffè-latte che le è venuta una gastroenterite. Dunque, abbiamo mangiato tanto e poi siamo arrivati a Possagno, il paese del mio papà. All’imbocco di questo paese c’era un negozietto di generi alimentari e da lì ci si è presentata una bella signora, un po’ robusta, giovane, e ci ha abbracciati. Ci ha portati dentro e ci ha cucinato le farfalline con tanto burro e parmigiano. E poi, purtroppo, non l’ho più rivista, perché ci siamo spostati da Possagno, perché cercavamo un paese che avesse due posti di lavoro per due insegnanti.

Siamo arrivati, quindi, a Ciano del Montello, frazione di Crocetta del Montello, e allora insegnavano uno la mattina e uno il pomeriggio. Il clima era allora ancora molto ricco di pericoli: c’era chi andava con i fascisti, chi con i partigiani. Man mano che la guerra la vincevano i partigiani, sempre più persone andavano con questi che a volte non si fidavano, anzi spesso avevano paura di essere boicottati e quindi talvolta uccidevano i disertori che tentavano di unirsi a lui”.

“Siamo scappati quasi tutti o infoibati” – dichiara Magda Rover – “la foiba più grande è il Mare Azzurro, mare perché, dove non c’erano foibe, agli uomini veniva messa una pietra al collo e venivano annegati”.

 

Michelangelo Grimaldi