Nata in una famiglia povera e numerosa, abituata a lavorare la terra senza sfarzi tirando avanti con grande fatica e tanti sacrifici, in un periodo storico dove per la povera gente la vita era dura perché doveva lottare contro miseria e malattie.
A fine Ottocento, primi Novecento, la bicicletta era il mezzo di trasporto di massa, non era un gioco ma una necessità.
Un giorno il padre acquistò dal medico del paese una bici sgangherata ma efficiente e fu così che Alfonsina imparò a pedalare e a gareggiare di nascosto fin da ragazzina. Ai genitori diceva che andava a messa e invece partecipava a delle competizioni.
Quindi chilometro dopo chilometro, Alfonsina iniziò a diventare popolare. A casa però la posero ad un bivio: o ti sposi e fai quel che ti pare oppure scendi dalla bicicletta.
Così a 24 anni (nel 1915) si sposò e per regalo di nozze, dallo sposo, invece che un anello, ricevette una bicicletta da corsa. Nel 1917 si recò a Milano alla sede della Gazzetta dello Sport per iscriversi al Giro della Lombardia. Il regolamento non lo vietava e forse sperava che fosse venuto il momento di sfidare gli uomini sul loro stesso campo.
Nel 1924 il marito viene ricoverato in manicomio e a quel punto spettava a lei sostenere le spese mediche del marito, e per farlo dovette puntare su stessa: decise di partecipare al Giro d’Italia, che voleva dire guadagnare soldi oltre che stima e fiducia. Venne accettata a gareggiare fra scetticismo e curiosità.
Durante il Giro compie regolarmente 4 tappe però, nella tappa L’Aquila-Perugia, arriva fuori tempo massimo. A quel punto i giudici si dividono in due fazioni: chi vuole estrometterla e chi è favorevole a farla proseguire. Il direttore della Gazzetta, Emilio Colombo, che aveva permesso la partecipazione di Alfonsina al Giro e aveva capito quale curiosità suscitasse nel pubblico, propone un compromesso: ad Alfonsina sarà consentito proseguire la corsa, ma non è più considerata in gara.