Diario di un prigioniero – Il Reato

L’incubo inizia con il primo brano, “Prosopagnosia” (capitolo: Il Reato; 709: Michele o Caparezza)

Tutto si fa sfocato, distorto, asfissiante.

“And if you call my name, I don’t recognize it

If I look at my face, I don’t recognize it”

Regna un’atmosfera onirica, dominata da un estenuante senso di impotenza. 

Si tratta del vedersi ogni giorno riflessi nello specchio, ma con l’incapacità frustrante di riconoscersi – da qui la metafora della prosopagnosia. 

La più crudele delle verità viene sbattuta in faccia, senza dar modo di difendersi: il disprezzo per tutto ciò che si è, o si crede di essere. 

“Non sono più lo stesso di un secondo fa, nel mio caso, fidati, pure un secondo fa” 

Il tempo passa, inesorabile, e l’essere non è più un’azione statica, ma un continuo divenire. 

Si è ormai prigionieri di mille contraddizioni e ad esplodere è una rabbia incontrollata per il non riuscire più a capire quale sia la propria identità.

Quell’odio profondo e inarrestabile che emerge istante dopo istante è dato dall’aver vissuto per anni in una bolla atemporale che ha strappato il cantautore dalla vita vera, riducendo il suo mondo al solo universo musicale, che però ora lo intrappola.

L’angoscia prende il sopravvento.

Caparezza si sente ormai totalmente in ostaggio della musica, la stessa che fino a poco prima gli permetteva di “fuggire dal mondo in un solo slancio”.

Ma non è la rabbia che lo condurrà verso la via d’uscita, anzi. La collera lo isola ulteriormente da ogni tipo di contatto umano, perché viene additato come vittimista. D’altronde “non ha senso recitare la parte degli incompresi, con tutti dalla sua parte, con tutti così cortesi.”

 

Alessandra Masciantonio