Atarassia – Racconto

– Annie, ferma! – fu la frase che, quel pomeriggio, ruppe il silenzio. Annie e sua sorella, Sophia, si trovavano sulle rive di un lago, poco distante da casa loro. Era stato da poco celebrato il funerale del padre, scomparso misteriosamente qualche anno prima e del quale, purtroppo, non si era mai riusciti a trovare nessuna traccia. Le due ragazze stavano raccogliendo dei ciottoli, da lanciare in acqua dopo aver tentato di farli rimbalzare sulla superficie lacustre, quando Sophia, senza accorgersene, aveva afferrato qualcosa di luccicante.
– Guarda, Annie, è un orecchino. Chissà se ce n’è un altro… oh, eccolo qua! – disse Sophia tutta esaltata.
– È carino… – replicò Annie, senza però badare, in verità, al piccolo oggetto bianco e rotondo che la sorella le stava porgendo.
– Ognuna potrebbe tenerne uno, che ne dici? È carina come idea, non trovi? –
– Certo… –
– Annie, a cosa stai pensando? –
-Come fai ad essere così felice? – domandò a Sophia, osservando un punto impreciso al centro del lago.
– Me ne sono fatta una ragione, ecco – le rispose. Annie strinse forte i denti per trattenere le lacrime, poi si alzò e senza salutare la sorella corse in casa.

Il padre da anni stava lavorando a un progetto che definiva di “progresso scientifico”, ma che per tutti era semplicemente il programma Atarassia: in sostanza prevedeva di impiantare artificialmente, in alcuni determinati individui, dei geni fabbricati in laboratorio. Purtroppo al tempo non c’erano molti volontari che volessero farsi innestare dentro il proprio corpo un organismo del quale non si conosceva neanche la portata di eventuali effetti collaterali. E comunque, anche se ci fossero stati abbastanza volontari, non tutti sarebbero stati in grado di legarsi a questo nuovo gene: una persona doveva essere particolarmente forte, con una mente molto aperta al possibile e soprattutto a rendere tale l’impossibile. Venne dunque istituita una legge che prevedeva di recarsi, una volta ogni sei mesi, dal proprio medico di famiglia per opportuni esami del sangue, teoricamente per trovare un rimedio a una nuova e sconosciuta malattia, in pratica per prelevare dei campioni di sangue da ogni singolo cittadino per poter trovare coloro che sarebbero potuti diventare Portatori, così erano stati denominati i potenziali partecipanti del programma Atarassia. Lo scopo era di elevare l’uomo a un superiore livello di conoscenza. Il gene inizialmente veniva iniettato con una siringa, facendolo passare come un vaccino. Ma poi la gente iniziò a intuire qualcosa e si decise di passare al piano B: fondere le stesse particelle artificiali che venivano utilizzate per fabbricare il gene e con esse, ormai allo stato liquido, creare delle copie false di oggetti di uso quotidiano, come collane o posate. Certo, sarebbe aumentato il numero delle morti casuali per le intolleranze al gene, ma questo non importava a nessuno: in ballo c’era il “progresso scientifico”, e il governo aveva deciso che il programma Atarassia era fondamentale per lo status quo. L’uomo è sempre stato una creatura che punta al massimo: vuole avere tutto, non si dà pace né si sazia fino a che non è arrivato alla conoscenza del tutto. Il tutto. Proprio a questo serviva questo progetto: arrivare al tutto. Il gene permetteva di poter viaggiare nel tempo: questo trasmetteva una leggera scossa neuronale, che induceva la parte fisica del corpo a trasmigrare in un altro istante del tempo. Si attivava in presenza di una forte sorgente di elettromagnetismo, e proprio su molte di queste era stato eretto il portale Atarassia. Nessuno sapeva dove portasse: c’è chi immaginava in un mondo alternativo, chi in uno abitato dai propri sogni, poi c’era chi credeva si trattasse di un portale del tempo e che quindi potesse portare trenta anni nel futuro oppure anche un solo minuto indietro nel passato. Purtroppo nessuno era mai tornato indietro per poter raccontare cosa avesse visto dall’altra parte, già, perché chi invece ce l’aveva fatta aveva riportato molti disturbi psicologici e non era più in grado di raccontare in modo coerente le proprie impressioni.

Annie stava sfogliando il quaderno degli appunti del padre, con le lacrime agli occhi. Inutile dire che non le mancava, la ferita era ancora aperta. Con un movimento lento e malinconico muoveva con l’indice l’orecchino che aveva trovato poco prima e che ora teneva sul palmo di una mano. Poi, in un momento di rabbia, lo lanciò contro la parete, desiderando avere davanti colui che le aveva portato via il padre. Fu proprio in quel momento che accadde qualcosa di inaspettato. L’orecchino venne attratto da una delle calamite che si trovavano sul termosifone lì vicino: si illuminò di una luce intermittente, che catturò subito l’attenzione della ragazza. Annie si avvicinò e, con fare tutt’altro che insicuro, si riprese l’orecchino. Fu come ricevere una fortissima botta sulla testa, e poi un’altra nello stomaco. Stava per svenire, quando riprese i sensi una volta visto ciò che aveva davanti: non si trovava più nello studio del padre, bensì in quella che poteva sembrare una triste e spoglia stanza di ospedale.
– Annie, dove siamo? – chiese Sophia che, a quanto pareva, era stata trasportata in quel luogo insieme alla sorella.
– Non lo so… –
Le due ragazze si osservarono intorno: prestando un po’ più d’attenzione, si accorsero di non trovarsi in un ospedale, ma in una sorta di laboratorio scientifico: c’erano scatole di farmaci vuote sparse sul pavimento, le pareti presentavano delle macchie di muffa dove un tempo molto probabilmente c’erano delle piastrelle che decoravano la stanza. Le finestre erano chiuse con delle assi di legno, l’aria era pesante. Annie avrebbe scommesso che nessuno fosse più entrato lì da secoli, finché, con un sussulto, notò una figura nera in un angolo del laboratorio.
– Vi siete perse? – domandò la figura misteriosa.
– Chi sei? E dove siamo finite noi? – domandò con voce tremante Sophia.
– Sono un amico. Attendo qui i Portatori del progetto Atarassia per poterli guidare alle loro mete. È da tanto che non ne vedevo uno -.
– Il progetto è ormai fallito da anni, noi siamo qui per caso – disse Annie.
– Che cosa stai dicendo? – le sussurrò la sorella.
– Sta parlando del progetto di papà. Ho letto alcuni suoi documenti, e in alcuni di questi c’era scritto che il programma era stato chiuso -.
– Volete dunque tornare indietro? –
– Sì – risposero le due ragazze all’unisono.
– Beh, la cosa è più semplice del previsto. Basta invertire il flusso di elettromagnetismo del vostro trasmigratore -.
– Di cosa? –
– Del trasmigratore. Cosa avete con voi? Degli orecchini? –
– Sì -.
– Bene, fatemeli vedere, moscerine -.
– Come ci hai chiamato? – chiese Annie, spalancando gli occhi. Quel soprannome era lo stesso che utilizzava suo padre. Sentirlo di nuovo smosse nella ragazzina un miscuglio di emozioni, pensieri e ricordi confusi, che le fecero subito girare la testa.
– Moscerine – ripeté lo sconosciuto. A quella parola Annie si avvicinò alla figura scura e iniziò a notare dei particolari che prima aveva totalmente ignorato: l’orologio di pelle portato sul polso destro, stretto fino al penultimo foro, il pullover azzurro a strisce bianche con le maniche tirate poco più in su del gomito, i capelli neri brizzolati leggermente di bianco, quegli occhiali neri dalla montatura sottilissima, le mani appoggiate sui fianchi e un’aria stanca e al contempo dolce in volto.
– Papà? – sussurrò tra le lacrime Annie.
– Moscerina, che ne dici di farmi vedere i tuoi nuovi orecchini? Credo proprio che ti stiano bene, sei sempre stata così bella, come tua madre, del resto -.
– Papà! – gridò più forte la ragazzina, gettandogli le braccia al collo.
– Ciao, tesoro mio -.
– Guardali, sono come quelli che avevi regalato alla mamma per il vostro ultimo anniversario – disse la ragazza porgendogli gli orecchini. Il padre li prese, non badando alle parole della figlia.
– Papà? –
Alzatosi, l’uomo si diresse al suo microscopio. Con un taglierino aprì delicatamente l’oggetto e lo posò all’interno di uno strano apparecchio cilindrico.
– Moscerina, ti ricordi come fallì il progetto Atarassia? –
– A un certo punto intervennero i Guardiani -.
– Sì, tesoro, quegli esseri doppiogiochisti – continuò il padre – Loro erano contrari al progresso, a qualsiasi forma di progresso. Volevano che ogni specie dell’universo tornasse alla sua forma universale: per questo pensarono di non distruggere direttamente il portale, ma di invertire la corrente elettromagnetica, così da creare un’implosione, un Big Bang al contrario, insomma… –
Annie si interruppe, e guardò nella direzione della figura che aveva creduto essere suo padre fino a quel momento. Ma, prima che potesse far qualcosa, la stanza si illuminò di una luce accecante.
E, improvvisamente, il tutto divenne niente.
Ginevra Comanducci – Classe 3C Liceo Classico “Galileo” di Firenze