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La cultura classica oggi tra valori e disvalori, sottoposta all’incombere di una nuova e subdola barbarie

 

Cari lettori, o ascoltatori che voi siate,
per chi si trova a dover buttar giù due righe, siano esse di natura tecnologica, scientifica, economica, politica, letteraria, classica o meramente edonistica (senza avere di per sé un fine), la necessaria spiaggia che conduce al mare della fantasia è rappresentata dall’eternità, o almeno così pare, della stasi dinanzi a un foglio bianco, come avveniva un tempo, o allo schermo di un computer, come avviene oggi.
Il celeberrimo blocco dello scrittore, tanto per intenderci!
In seguito alla ponderatio concernente i punti chiave da trattare rispetto all’argomento in questione- e vale a dire “La cultura classica oggi tra valori e disvalori”- un interrogativo in particolare, più di altri, continuava a balenare nella mia mente. In che modo farlo? Mi si apriva dinanzi un bivio, del quale era indispensabile considerare, per ognuna delle due strade, lunghezze, ostacoli e luoghi d’arrivo.
A dire il vero inizialmente non avevo nemmeno considerato la plurivalenza delle possibilità contemplabili e ,seguendo prevalentemente i miei interessi e propensioni , a quel famoso bivio la mia scelta era stata la stesura di un saggio- o comunque di un testo argomentativo- che sciorinasse, con tanto di concinnitas, figure letterarie e citazioni di uomini illustri, le ragioni, trite e ritrite da anni da ogni professore di ogni Liceo Classico, per cui il greco e il latino (saggi e talvolta crudeli compagni di viaggio!) non sono, come denota il sentire comune, “materie morte”, ma continuano a vivere dentro ognuno di noi, in quanto culle della nostra cultura.
Già una buona metà del mio breve trattato aveva preso vita, quando, rileggendo compiaciuto quanto prodotto fino a quel momento, all’improvviso pensai che forse la retorica è un buon cibo da gustare per una singola persona, comodamente seduta sulla propria poltrona, riscaldata dalle fiamme del camino di casa, magari con l’amaro del caffè in bocca, ma che di certo non lo è per una folla di giovani spazientiti e annoiati, i quali, purtroppo, guardano meno, o forse per nulla, alla forma e più al contenuto.
Devo confessare di aver provato un certo dispiacere quando il mio subconscio, immediatamente dopo le suddette riflessioni, mi spinse a cancellare ciò che avevo scritto.
Altro blocco! “Non ce la farò mai”- pensavo- “a cosa serve in fondo? Anche se cambio la forma, comunque nessuno mi ascolterà “, e ancora “che stupido sono stato a cancellare tutto”; ma, improvvisamente, ecco l’idea: piuttosto che parlare di valori e disvalori, non sarebbe stato meglio lasciare che i valori, o meglio, chi un tempo questi valori li ha incarnati e se ne è fatto portavoce, parlassero da soli?
Ho partorito dunque una novella, una breve storia moraleggiante, che dia più valore al fine e non ad un ampolloso e stucchevole mezzo. Mi auguro sia di vostro gradimento.

Quando lasciò il suo ufficio, quella sera, erano già passati tre quarti d’ora dalle 21:00.
Pensò che fosse tardi; in effetti lo pensava spesso, ma senza porvi mai un’adeguata attenzione. Era uno di quei pensieri che un attimo prima compaiono nella nostra mente, accompagnati da un lieve senso di colpa e una falsa e ancor più lieve voglia di cambiamento, e un attimo dopo vengono spazzati via dalle premure più importanti, quelli a cui vale la pena porre attenzione!
Umberto Meregalli aveva 46 anni, una Alfa Romeo Stelvio nuova di zecca, due case a Milano, tre sul lago di Como e tre ( o forse erano quattro?) in montagna. Appena sotto la punta della piramide chiunque gli riconosceva anche una dozzina di seducenti segretarie, due centinaia (o forse tre) di muli da soma e un altrettanto numero di macchinari stipendiati. All’elenco potevano senza dubbio aggiungersi un guardaroba di tutto rispetto, una decina di smartphone, tablet e computer di ultima generazione e, ultimo e più importante dei suoi dei sull’Olimpo, il suo LAVORO! Lo stesso lavoro che gli aveva permesso di costruire il suo impero. Umberto era il direttore, nonché proprietario, della più grande industria di produzione plastica nel Milanese.
Ah si, quasi dimenticavo! “Possedeva” anche una moglie e un paio di figli, ma a questi egli dava la stessa importanza dell’orario a cui lasciava il suo ufficio la sera: un falso e lieve senso di colpa, che veniva spazzato via dopo pochi secondi da pensieri ben più importanti!
Quella sera Umberto pensò che fosse tardi, se non altro, per la metropolitana che a momenti sarebbe andata via senza aspettarlo e lo avrebbe costretto a restare dieci minuti in più a contatto col lezzo di sudore di quella che definiva “gente comune” e con quello ancora più nauseante dei barboni che bazzicavano per la metro.
“Devi correre più veloce del mondo per essere qualcuno” pensò e accelerò il passo.
Prese la linea rossa da Rho Fiera a Lotto, la viola fino a Zara e la gialla fino a Montenapoleone.
Giunto davanti casa sentì lo stomaco lamentarsi: la sciagurata della moglie avrebbe fatto bene a fargli trovare la cena pronta dal momento che aveva moltissima fame e altrettanto sonno. La pazienza non era certo il suo forte.
Salì fino al settimo piano, anzi, lo fece l’ascensore per lui, diede un bacio di routine alla moglie e ai figli e cenò solo, come era solito fare, scambiando qualche parola di tanto in tanto con il quotidiano, amico fedele che gli suggeriva gli ultimi dati ISTAT sugli andamenti delle Borse.
Dopo cena la programmazione lavorativa per l’indomani premeva e ciò era sicuramente più importante che prestare attenzione alle filastrocche dei figli o al racconto degli “stupidi pettegolezzi” (come egli stesso amava definirli) della moglie.
Quindi una volta spento il suo portatile, bevve la solita camomilla, congedò i familiari e andò a dormire.
Non sapeva ancora che ciò che sognò quella notte avrebbe cambiato la sua vita.

Parte seconda
“Sai benissimo che non posso farlo Riccardo! È troppo rischioso, non se ne parla.”
“Suvvia, non vorrai dirmi che dopo quasi trent’anni di vita politica non riusciresti a manomettere una gara d’appalto locale! Dovresti aver appreso i trucchi del mestiere, vecchio mio. In fondo, si tratta semplicemente di far sparire un po’ di carta straccia e sostituirla con della nuova, no?”
“Avrò in cambio ciò che avevamo concordato?”
“Ma certo, l’azienda che si aggiudicherà l’appalto mi sarà riconoscente, io avrò i voti necessari per le prossime elezioni e tu, una volta che sarò il nuovo Presidente del Consiglio, diverrai il mio fedele e competente Ministro degli Interni. Ho già parlato con alcuni membri del tuo partito: ti copriranno. Sei il consigliere più influente della regione Lazio, so che puoi farlo, Elio! Per quanto riguarda la nomina di un ministro proveniente dalle fila di un partito avversario , non sarà certamente motivo di scandalo; Depretis d’altro canto insegna: il trasformismo in Italia non ha mai fatto male a nessuno!”
“Eh va bene Riccardo, faremo come hai detto, ma ricorda: niente scherzi. Adesso è meglio che vada, sai come vanno le cose: la gente chiacchiera e tu ed io non siamo la coppia ideale da vedere seduta in un bar del centro”.
A dire il vero il bar Dolce Vita era abbastanza affollato da poter mascherare la loro presenza e Piazza Navona alle 19:00 pullulava di giovani piccioncini e di insaziabili turisti, ma Elio Ricci era stanco di quelle interminabili trattative e così aveva preferito spendere quei 90 minuti che avrebbero preceduto il suo rientro a casa in compagnia della sua amante.
Erano le 20:30 quando, percorrendo il ponte degli Annibaldi con un occhio al marciapiede e uno al Colosseo, si trovava da una decina di minuti a riflettere sulla gravità dei propri peccati.
Poi la danza delle luci notturne di Roma lo rincuorò e pensò che, in fondo, per accrescere il proprio potere era necessario lasciarsi corrompere e che un uomo di 65 anni, per sentirsi davvero virile, aveva bisogno di una giovane e seducente sgualdrina che lo gratificasse un po’.
“Non c’è motivo di sentirsi in colpa”- disse tra sé e sé – “lo fanno tutti!”
“Bentornato amore”, proferì la moglie sentendo aprire la porta di casa, “come è andata al lavoro oggi?”
“Se si potesse definire davvero lavoro…” pensò, poi tirò fuori la solita maschera (non gli risultava difficile dopo anni di teatro politico) e disse “Bene cara, come sempre”.
Amava la moglie, amava suo figlio e sua figlia e loro amavano lui. Sia chiaro: in famiglia tutti sapevano tutto di tutti, ma Elio aveva sempre avuto il pregio di far trovare la strada spianata ai suoi cari e, poiché questa in Italia era la chiave del successo, in fondo andava bene così.
Dopo la consueta cena fatta di cibi prelibati e sorrisi tanto dolci quanto falsi, indossato il suo pigiama di seta, si recò nella propria camera da letto, prese l’ i phone 8 e scambiò qualche messaggio con l’amante, nell’attesa di cadere tra le braccia di Morfeo.
Quella notte, tuttavia, non sarebbe stata come tutte le altre.

Parte terza
La campanella del Liceo Scientifico Albert Einstein suonò le 13:30.
“Finalmente”, pensò Clara, “il supplizio anche per oggi è finito!”. Che tedio la scuola, troppe domande a cui rispondere, troppe persone con cui dover essere educata e cordiale, troppi compagni di classe che raccontavano troppe cose insignificanti, troppe voci, troppo chiasso e, soprattutto, troppi libri!
Il secondo passo, dopo il suono della campanella, per realizzare pienamente la propria felicità era giungere a casa, sgranocchiare qualcosa di non troppo impegnativo così da evitare le stressanti domande della madre ( “com’è andata?”, “hai fatto amicizie ?”, “e i compagni?”, “e il nuovo prof?”) e filarsela dritta dritta nella propria camera.
Era lì l’apice della beatitudine: un letto con lenzuola profumate, un paio di cuffie, il proprio telefono, il portatile con cui connettersi a Facebook e un balcone con vista sulla periferia di Palermo.
Clara Vitale era l’unica figlia di un operatore ecologico e di una sarta, le condizioni economiche della sua famiglia si alternavano tra periodi in cui si aveva il sufficiente per vivere e altri in cui, per vivere, era necessario essere parsimoniosi, molto parsimoniosi.
Non poteva di certo permettersi vestiti firmati e apparecchi elettronici all’ultimo grido e inoltre, siccome, si sa, a Palermo le voci corrono e anche abbastanza celermente, per molti non era Clara Vitale, bensì “a figghia do munnizzaru”. Queste circostanze l’avevano portata a maturare, nel corso della propria adolescenza, l’idea di essere davvero inferiore alle sue coetanee, che al contrario potevano seguire la dura legge della pubblicità (mito del mondo moderno), e a pensare che l’unico modo per “essere come gli altri” fosse nascondersi dietro lo schermo di un telefono. Lì sì che poteva essere qualcuno!
D’altronde la gente era cattiva, ma lo era perché Clara era una brutta persona, povera, noiosa, senza fantasia e molto poco interessante. In realtà tutto questo non glielo aveva mai detto nessuno, ma ella aveva sempre ritenuto che i suoi coetanei pensassero questo di lei e quindi non aveva mai provato ad intraprendere con nessuno un discorso più lungo di due o tre frasi messe accanto, a volte senza nemmeno tanta coerenza.
Con quel telefono in mano però il mondo da nero diventava bianco e Clara poteva esplorare luoghi mai visti prima, cambiare la propria identità quando più le aggradava, scorrere le foto delle fashion bloggers più seguite su instagram (che austeri modelli di vita!) e farne dei totem sacri, approcciare i ragazzi carini della scuola senza che le amiche ridessero di lei!
Troppo bello per essere vero.. già, in effetti vero non lo era per niente, ma in fondo era più gratificante della vita reale e in questo Clara trovava un flebile conforto.
Trascorse anche quel giorno in compagnia del suo migliore amico e, scoccate le 23:00, senza aver visto né parlato più con nessuno, rifocillatasi solamente con un paio di frutti, andò a dormire.
Quella notte sognò qualcosa di particolare, molto particolare.

Parte quarta
Elio si rese conto che stava palesemente sognando, ma che non valeva poi così tanto la pena di svegliarsi: ciò che gli si stendeva dinanzi a perdita d’occhio era alquanto interessante.
Doveva sicuramente essere notte e lo si poteva facilmente dedurre dal buio pesto che lo circondava, anche se fu sorpreso nel notare che in cielo non vi erano né la luna né tantomeno le stelle e che l’unica fonte di luce sembrava essere un forte bagliore distante più o meno trecento metri.
Si trovava in un immenso campo di erbaccia scura e selvatici fiorellini viola; ai lati di questo campo, che correva longitudinalmente fino a una bassa collina, un bosco folto e buio circondava il già tetro scenario.
Decise di proseguire verso la collina, sperando che questa alle proprie spalle celasse qualcosa di interessante (aveva sempre avuto un certo infantile spirito d’avventura), quando improvvisamente udì la voce di un uomo farneticare qualcosa dai meandri del bosco alla sua destra.
“Ehi tu, fermo dove sei! Si, proprio tu, chi sennò? Non c’è anima viva in questo posto!” sbraitò un uomo in giacca e cravatta, venendogli incontro con fare palesemente spazientito. Aveva tutta l’aria di essere un ricco imprenditore.
“Che diavoleria è mai questa? Tu ne sai qualcosa, stupido vecchio? Lo scherzo è bello quando dura poco, si dice dalle mie parti! Ricordo di essermi addormentato, ne sono più che certo, della stessa certezza che questo è un mio sogno, ma che non riesco a svegliarmi.”
Elio avrebbe voluto rispondere a tono a quel maleducato, rammentargli un po’ di buone maniere e puntualizzare che quello era il SUO sogno, ma fu colto da un terrore viscerale nel realizzare che, benché fosse sicuro di essere pienamente padrone delle proprie azioni e dei propri pensieri in quel luogo misterioso, nemmeno per lui sarebbe stato minimante possibile decidere di svegliarsi.
Dopo aver scambiato tante parole quante ne fossero necessarie per comprendere che si trovavano nella medesima bizzarra situazione e aver concordato che inveirsi contro vicendevolmente non era certamente la soluzione congeniale per uscirne fuori, fatte le dovute presentazioni, decisero di avviarsi verso la collina che si stagliava loro dinanzi.
Giunti in cima lo scenario era a dir poco sconvolgente: una vastissima pianura, attraversata da un fiumiciattolo dalle acque scure e completamente prive di qualsiasi forma di vita vegetale o animale, guidava l’occhio degli increduli spettatori verso un castello dalle dimensioni megalitiche, circondato tutt’intorno da sette cinta murarie. Il complesso delle struttura fortificata emanava una luce calda e accecante.
Improvvisamente a Umberto Meregalli tornarono in mente dei versi, come quei ricordi confusi e offuscati, spesso ricostruibili per fotogrammi non consequenziali, che si hanno della propria fanciullezza. Cominciò a recitarli ad alta voce:
Non era lunga ancor la nostra via/ di qua dal sonno, quand’io vidi un foco/ ch’emisperio di tenebre vincia ./
Di lungi n’eravamo ancora un poco,/ ma non sì ch’io non discernessi in parte/ ch’orrevol gente possedea quel loco.
Non aveva più di dubbi: si trovavano nel Limbo dantesco e se avessero voluto ottenere delle risposte, queste risiedevano proprio all’interno di quel magnifico castello.
Discendendo la collina, sempre più decisi a valicare le mura di quel castello, su una delle rive del fiumiciattolo scorsero una sagoma femminile in jeans e scarpe da ginnastica, con la testa tra le gambe in evidente segno di disperazione. Dato l’evidente anacronismo nell’abbigliamento, capirono immediatamente che doveva trattarsi di una giovane ragazza nella loro medesima situazione e ,difatti, quando le si avvicinarono, considerando che singhiozzava palesemente e che non aveva la minima idea di cosa le stesse accadendo, non ci vollero più di tante persuasioni per convincerla a far parte di quel bizzarro trio.
Così, dopo una camminata di una ventina di minuti, Elio, Umberto e Clara, completi sconosciuti fino ad all’ora e divenuti adesso immaginari compagni di un viaggio che di reale aveva ben poco, giunsero dinanzi ad un maestoso portone in legno, collocato in quel posto da qualcuno come ingresso alla prima cinta muraria.
Si guardarono reciprocamente; sapevano che quello era il sogno più strano della loro vita (ammesso che si trattasse davvero di un sogno), sapevano che posto era quello ma non sapevano ancora perché erano lì.
Tuttavia, non ci misero molto a capire che lo avrebbero scoperto molto presto quando i sette enormi portoni a guardia del castello si spalancarono contemporaneamente in un batter d’occhio, come se qualcuno li stesse aspettando e, a dirla tutta, fosse pure spazientito da un certo ritardo!

Parte quinta
All’interno, oltre l’ultimo dei sette portoni, l’androne del castello non si presentava con i connotati di quelli che i nostri sognatori conoscevano: vi era un vasto prato verde e ben curato, impreziosito dalla presenza di alberi di ulivo, arance e mele sparsi in ogni dove, le cui secolari radici formavano al di sotto del manto erboso piccole colline e piccole valli.
Il prato terminava ai piedi di un’enorme scalinata con i gradoni in marmo bianco e i corrimano realizzati con l’oro più brillante che chiunque avesse mai visto.
Dinanzi all’ultimo gradone, che era anche il più grande, si ergeva un monumentale tavolo, anch’esso dorato, i cui bordi erano adornati con verdissime foglie di alloro. Ai due lati, due gruppi di tre poltrone rivestite in velluto rosso erano disposti l’uno perfettamente di fronte all’altro, quasi fosse uno di quei tavoli in cui si tenevano gli interrogatori delle serie Tv poliziesche, semplicemente molto più lussuoso.
Improvvisamente una voce virile, che sembrava provenisse da ogni punto del castello e allo stesso tempo da nessun luogo concreto, come il fragore di un fulmine che rompe la quiete di una serena notte d’estate, tuonò dicendo: “Accomodatevi miei cari, vi stavamo aspettando” e poi, quasi avesse letto i pensieri di disappunto nella mente del signor Meregalli, aggiunse: “Sappiate che da questo momento in poi, se non volete rimanere in questo luogo per l’eternità, farete bene a seguire ogni nostra indicazione!”.
Non appena Elio, Umberto e Clara presero posto, tre figure incappucciate emersero dalle tenebre della sontuosa scalinata.
Non appena cominciarono a venire incontro al tavolo dove stavano seduti i due uomini e la ragazza, questi notarono con sorpresa, ma non poi così grande, dal momento che ogni cosa sembrava poter accadere in quel luogo, che le tre figure misteriose stavano fluttuando. Presero posto dal lato opposto del tavolo, proprio di fronte ad ognuno di loro.
“Buonasera signori miei”- cominciò l’uomo seduto sulla poltrona centrale- “credo sia arrivato il momento di sapere perché vi abbiamo convocato”. Fece un pausa che sembrava essere interminabile, “Siete qui perché ognuno di voi rappresenta, a nostro modestissimo parere, l’emblema della società moderna. Ciascuno per la fascia d’età e la posizione sociale che gli compete ovviamente. Se non vi dispiace io e i mei illustri amici vorremmo sottoporvi qualche domanda”. Altra pausa.
“Cominciamo da te”. Il suo indice stava indicando, senza ombra di dubbio, l’uomo che gli stava seduto dinanzi, il signor Elio Ricci.
“So già il suo nome, dunque salteremo a piè pari le inutili presentazioni. Come vanno le onestissime trattative che da un po’ di tempo porta avanti riguardo a quella… ah già, quella gara d’appalto?”
Elio, a sentire quelle parole così dirette e che ostentavano una piena onniscienza di ogni più piccolo particolare della sua vita, si sentì rabbrividire e contemporaneamente capì che il tempo delle menzogne era finito. Cominciò a parlare col tono di voce di un bimbo colto in flagrante nell’atto di compiere una qualche monelleria- “Beh… bene, insomma, credo di poter completare il tutto entro un paio di settimane senza lasciar briciole. Nessuno saprà nulla, né molti dei miei colleghi di partito, né tantomeno l’azienda che inizialmente aveva vinto la gara”.
La vergogna sul suo volto era palpabile; dopo aver asciugato le gocce di sudore che iniziavano a colare giù per la fronte, proseguì- “In fondo, sa come si dice, occhio che non vede…”
“… cuore che non duole”- completò l’altro. “Già, che stupido proverbio di convenienza vi siete inventati. Posso chiederle perché lo sta facendo, signor Ricci?”
“Sa in Italia… In Italia è così che vanno le cose: i potenti la fanno da padroni e, se non vuoi essere rispedito tra i ranghi più infimi della società, devi stare alle regole del gioco.”
L’uomo incappucciato si alzò, poi scoprì il proprio volto: era lo stesso di quello che Elio aveva spesso visto raffigurato in numerose sculture a mezzo busto, con la sola differenza che adesso appariva infuriato e toccato nel profondo dalle sue parole: era Marco Tullio Cicerone.
Forse non avrebbe non dovuto usare quella parola.
“Crede forse che la politica sia un gioco? Mi sta dicendo che io, Marco Tullio Cicerone, sono quindi morto per un gioco?! Faremo così: le rammenterò brevemente la mia storia dal momento che, a quanto pare, i libri di letteratura non le hanno insegnato nulla. Nel contempo, gradirei che lei mi guardasse negli occhi e, vergognandosi, comprenda quale e quanto grande cancro ammala il suo animo!
Sa, lei somiglia a una certa persona mia contemporanea che io stesso ho indagato, accusato in tribunale e distrutto. Si chiamava Verre, ne avrà sentito parlare. Costui, proprio come lei, era un ladro, uno che utilizzava la politica per rendersi più ricco e potente. A nulla valse la difesa del più grande avvocato del tempo, Ortensio Ortalo: la mia ars oratoria, intrinseca di amore per la giustizia, prevalse su ogni obiezione.
Anche al mio tempo, purtroppo, non mancava chi per invidia tentava di raggiungere il potere percorrendo strade illecite. Ricordo ancora un tale di nome Catilina: questo sciagurato voleva uccidermi per ricoprire il ruolo di console al mio posto; mi tese una congiura, ma io riuscì a smascherarlo e lo condannai a morte. La res publica aveva bisogno di una guida onesta e integerrima e dunque il lògos, che permea l’universo e che a tutto provvede, si schierò dalla mia parte.
Poi il vento cominciò a soffiare dal lato opposto, ma io ripudiavo ciò che voi definite trasformismo e preferii la condizione di esilio decretata dai triumviri piuttosto che rinnegare i miei principi repubblicani. In quel periodo difficile lei, signor Ricci, avrebbe provveduto ben presto ad una seducente amante, ma io, che ero e sono ancora legato al concetto di integrità morale, alleviavo le mie sofferenze scrivendo patetiche lettere ai miei familiari.
Quando Cesare morì, non potei fare a meno di manifestare la mia gioia. Pagai caro questo errore, ma fui contento di morire senza macchia: tutti mi avrebbero ricordato come un modello di vita sociale e politica.
Quando lei morirà, signor Ricci, l’Italia gioirà di essersi liberato di un ladro, di un impostore!
La sua espressione mi suggerisce che qualcosa in lei sta cominciando a cambiare. Credo che possa bastare.”
Finito il suo discorso, riprese posto.
Elio Ricci era rosso in viso dalla vergogna e, alcuni secondi dopo, scoppiò in lacrime; come poteva dargli torto?
Ci furono alcuni brevi e interminabili attimi di silenzio, poi l’uomo che sedeva alla destra di Cicerone e dinanzi a Umberto Meregalli bisbigliò qualcosa all’orecchio del concittadino.
Conclusa l’indecifrabile consulenza (doveva essere una forma di latino parlato molto probabilmente), si rivolse a chi gli sedeva di fronte- “So che lei non ama affatto pazientare signor Meregalli, dunque non la annoierò più di tanto.” Gli strinse la mano e si presentò- “Piacere, Lucio Anneo Seneca”.
L’espressione dell’uomo non mutò minimamente: sarebbe potuto essere anche Papa Francesco o Donald Trump, a lui poco importava; le uniche cose davvero importanti nella sua vita erano il lavoro e i soldi.
“Mi sa dire qual è il colore preferito di sua moglie?”, cominciò il filosofo latino.
“Non lo so, e non lo so perché non è importante saperlo.”
“Quanto tempo passa solitamente in compagnia dei suoi figli?”
“Se ne occupa mia moglie, io non ho tempo.”
“E come occupa il suo tempo, signor Meregalli?”
“Lavorando.”
“E pensa che questo la possa accrescere culturalmente e moralmente o possa contribuire alla sua felicità?”
“Può contribuire senza dubbio ad accrescere il mio conto in banca!”
“Lei è il ritratto del mondo di oggi, fatto di uomini troppo intenti ad affaccendarsi continuamente per il perseguimento di fini materialistici ed economici. La maggior parte degli uomini, come anche lei mi ha appena confessato, afferma che il tempo corra via troppo velocemente e ciò, dipendendo necessariamente da come lo si impiega, può anche essere vero.
Ma attenzione: la vita spesso abbandona gli uomini proprio mentre questi si accingono a prepararla al meglio. Ammettiamo, ad esempio, che questo non sia un sogno e che lei, non credendo in un Dio che sia Amore e Carità, bensì nel dio denaro, sia morto e destinato all’inferno. In che modo ha potuto giovarle il suo denaro? “Ne godranno i miei figli” potrebbe obiettare; ma io le risponderei che i suoi figli sarebbero riconoscenti al denaro in sé e non ad un padre che non si è mai dedicato a loro. Inoltre, tutti coloro che sembrano mostrare affetto nei suoi confronti, come le sue cordiali segretarie e i dipendenti che le offrono giornalmente il pranzo al ristorante, non sono legati a lei, ma al suo generoso portafoglio.
Io penso che lei non abbia poco tempo, ma che ne stia perdendo molto!
Ahimè, la vita concessa a noi uomini è finita e peggiora col sopraggiungere della vecchiaia, tuttavia ognuno di noi può renderla eterna attraverso il compimento delle azioni più grandi, e non parlo di eroiche azioni o impossibili imprese, bensì di azioni praticabili nella vita di tutti i giorni: il culto della bellezza, la riflessione sulla saggezza, l’accrescimento morale, la carità verso chi sta peggio di noi, l’amore dei propri cari.
Legge mai qualche pagina di un buon libro prima di andare a dormire? Si è mai soffermato ad ammirare quale senso di pace può trasmettere un dipinto rinascimentale o una scultura barocca? Ha mai riflettuto sulla valenza morale delle proprie azioni? Ha mai fatto beneficienza, sia essa di qualsiasi tipo? Ha mai trascorso, signor Umberto, un fine settimana in compagnia di sua moglie e dei suoi figli?”
“No”- rispose Umberto- “non ho mai fatto nulla di tutto ciò, ho sempre pensato al mio lavoro e a come avrebbe potuto evolversi l’indomani.”
“Il mio consiglio è questo: si dedichi più all’oggi che al domani, è lì che troverà il senso della vita. Che senso ha, infatti, l’accumulare continuamente denaro se questo non può darle la felicità, se non è utile a migliorare il suo rapporto con gli altri?”
“Nessuno, signore.” L’espressione di Umberto adesso, da quella di un uomo superficiale e convinto delle proprie ragioni, era mutata: a guardarlo bene sembrava come chi si rende conto, per la prima volta nella propria vita, di qualcosa che aveva da sempre avuto davanti agli occhi.
“Bene, vedo che ha imparato la lezione di un vecchio filosofo. E ricordi sempre: dum differtur, vita transcurrit!”
Poi, rivolgendosi a Cicerone- “Beh Marco, io direi che le nostre parole hanno sortito l’effetto desiderato, ne manca solo una.”
“Già, ma non è compito nostro” rispose quello; quindi, rivolgendosi all’uomo alla sua sinistra in tono ironico, disse- “Ehi ateniese, vacci piano con le parole; saresti capace di far sorgere dubbi anche in un uomo risoluto come me!”
L’altro accennò un sorriso, indice di falsa modestia e gratificazione, e puntò gli occhi fissi su Clara.
“Ciao ragazzina, qual è il tuo nome?”
“Clara”, rispose la ragazza.
“Qual è il nome della tua migliore amica?”
“Non ho una migliore amica, signore”
“Per quale motivo, cara?”
“Non esistono amici a questo mondo, gli altri ragazzi sono cattivi, o per lo meno, lo sono con me. Ho tanti amici virtuali però: su Facebook tutti mi apprezzano per ciò che sono davvero. Lì almeno non vengo giudicata a priori per il fatto di essere povera…”
“Per ciò che sei o per ciò che non sei davvero?”
“Ma che domande sono? Le sembro una che dice menzogne?” rispose Clara infastidita. Come abbiamo già detto, non amava parlare con le persone e tutte quelle domande le stavano iniziando a dare un certo fastidio.
“Oh mia cara, non agitarti. Io non dubito della tua sincerità, ma di quella degli altri. Chi ti assicura che i tuoi amici virtuali non usino i social per mascherare ciò che sono davvero? Chi ti assicura che dietro la foto di un giovincello per bene non si nasconda una persona opportunista, lo scherzo di cattivo gusto di un gruppo di giovani bulli, un ladro, o peggio, uno stupratore, un pedofilo?”
“Beh, nessuno, o forse la buona fede, signore.”
“Vedi ragazzina, a questo mondo non tutti, o meglio, quasi nessuno agisce in buona fede. E non chiamarmi più signore, chiamami pure Socrate!”
Quel nome riaccese di conforto e speranza il cuore di Clara: ricordava ancora che la sua professoressa di filosofia aveva detto a lei e ai suoi compagni che il governo ateniese lo aveva tacciato di perché egli ne stava ottenendo la piena stima, facendo loro aprire gli occhi, mediante il dialogo, riguardo alle verità del mondo.
“E allora dimmi, grande maestro, come posso farmi accettare dai miei coetanei per ciò che sono?”
“Anzitutto sappi, mia cara Clara, che queste nuove piattaforme sociali danno solamente l’impressione di ampliare le tue conoscenze. Come hai fatto a non renderti conto che in tutto questo tempo, mentre tu trovavi conforto in esse, là fuori, nel mondo reale, c’è sempre stato qualcuno che aspettava solo che la tua diffidenza verso l’intero genere umano svanisse per conoscerti fino in fondo? Continui a pensare forse che tutti abbiano dei pregiudizi nei tuoi confronti? Bene, quale arma migliore del dialogo, inteso come arte del saper parlare, può essere usata come strumento di persuasione? Sapessi quante e quanto grandi convinzioni errate sono riuscito a distruggere con la mia maieutica!”
Quelle parole furono per Clara come un nuovo stimolo per vivere, una nuova ragione per non continuare a disprezzare le persone con cui si trovava a contatto ogni giorno nella propria scuola.
Avrebbe voluto alzarsi e salire sopra il tavolo per abbracciarlo, ma non le fu possibile.
Nello stesso istante in cui tutti e tre i nostri sognatori furono pienamente consapevoli degli insegnamenti impartiti loro dai grandi uomini del passato, una luce accecante pervase il castello in ogni suo più nascosto meandro e il sogno svanì improvvisamente, così come era iniziato.

Conclusione
Non era importante il fatto di essersi svegliati in un moderno palazzo di Milano centro, in una lussuosa camera da letto di un ancor più lussuoso appartamento romano o in una delle case popolari di Palermo, non era importante essere un ricco imprenditore, un consigliere della regione Lazio o una giovane studentessa, ciò che davvero importava era che da quel momento in poi Umberto, Elio e Clara lo sarebbero stati in modo diverso, magari consultando, di tanto in tanto, un buon libro di letteratura greca o latina.

Domenico La Rocca V A Liceo Classico “G. Carducci” – Comiso (RG)