Fuga di ricercatori

Molti giovani laureati italiani, spesso ricercatori, non trovano nel loro paese la possibilità di andare avanti nella propria carriera lavorativa e così, ampliando le loro prospettive, decidono di lasciare tutto e “fuggire” all’estero nella speranza che le loro competenze e capacità siano considerate davvero come tali. Il medico specialista in endocrinologia e ricercatrice presso l’Università degli studi di Tor Vergata, Valeria G. esprime il proprio parere a riguardo:

Per quale motivo tanti giovani ricercatori scelgono di andare all’estero?

Credo che molti scappino dall’Italia perché qui non trovano posti stabili: si è destinati al precariato almeno fino a 40 anni e bisogna considerare anche periodi in cui si è senza stipendio tra un assegno di ricerca e l’altro. Inoltre adesso sono anche stati posti dei limiti al periodo di ricerca: dopo il dottorato sono concessi solo 4 anni di assegni di ricerca senza poterli rinnovare. Ciò ha creato un grosso problema perché oltre ad essere precario spesso non si ha continuità nello stipendio ed è difficile giungere all’età di 30/40 senza essere ancora riusciti a costruirsi una propria carriera.

Infine il fatto di non avere un titolo quale quello di ricercatore e di non veder riconosciuto il tuo ruolo è anche frustrante e demotivante.

Secondo lei questi problemi si riscontrano solo in Italia o anche in altri paesi europei? E se sì, perché?

Problematiche di questo genere sono diffuse sicuramente anche in altri paesi europei ma bisogna considerare che purtroppo in Italia fondi di ricerca sono molti di meno rispetto a quelli europei; quindi nonostante uno abbia idee e progetti da portare avanti in Italia è complicato perché vi sono appunto pochi materiali predisposti per la ricerca.

Un’importante differenza che ho riscontrato è che all’estero la progressione accademica è molto veloce, mentre qui in Italia dopo l’assegno di ricerca diventi ricercatore, ma da ricercatore a professore sono necessari minimo 6 anni, a patto che tu riesca a diventarlo.

In molti paesi europei invece vengono dati ai giovani ruoli da responsabili perché si ha la concezione che è il giovane ad avere più idee per la ricerca e più entusiasmo per insegnare. In Italia, si arriva tardi a ricoprire cariche e ruoli che all’estero raggiungono prima:

spesso si ottiene il titolo di professore associato (primo grado) non prima dei 50 anni.

Proprio perciò alcuni, soprattutto biologi, giunti all’età di 35 anni senza ancora un contratto stabile decidono di abbandonare il campo della ricerca e insegnare nelle scuole superiori.

Ha mai pensato di “fuggire”?

Si, ho pensato di fuggire: tempo fa, dopo aver trascorso un periodo di circa un anno e mezzo all’estero, ho pensato di provare a rimanervi, anche se alla fine sono tornata. Dopo aver preso il dottorato di specializzazione, ho deciso di completare lì quello di ricerca e ho riflettuto molto sull’opzione di rimanere in quanto avevo trovato più spazio, il rapporto con il capo era sicuramente più alla pari e l’ambiente era meno gerarchizzato. Avevo così la possibilità di prendere molte più decisioni e il fatto che mi ha meravigliato maggiormente è stato quello di poter testare qualsiasi ipotesi che mi venisse in mente perchè vi erano tutti i materiali necessari a disposizione.

Invece da noi per una qualunque idea che uno sviluppa deve richiedere sempre fondi (che non ci sono) per ottenere i materiali di cui si ha bisogno.

Cosa direbbe ad un giovane in procinto di partire?

Penso che l’opzione di partire sia sicuramente valida, tuttavia consiglierei di considerare che la vita è fatta anche di tanti altri aspetti, non solo quello lavorativo; infatti lasciare il proprio paese vuol dire anche lasciare le proprie origini e la propria famiglia e inoltre non è sempre detto che si va poi a stare meglio.

Qui sicuramente è più faticoso che all’estero: bisogna mettere in conto un periodo più lungo per fare carriera, però non è detto che non si arrivi a ciò a cui si ambisce.

L’importante è non essere troppo schiavi di una narrativa negativa molto diffusa in Italia secondo cui non ci sono possibilità di far carriera, sicuramente le prospettive non sono delle migliori ma credo che ci siano anche delle realtà positive: dal Nord, in particolar modo, sino al meridione, come ad esempio il Centro di Ricerca di Bari Aldo Moro.

Bisogna dunque giudicare la realtà con i propri occhi (e non perché si sente continuamente dire che qui non si trova lavoro) e mantenere la fiducia che la situazione possa cambiare.

Quindi andare all’estero serve sicuramente, ma è necessario ricordarsi che un periodo al di fuori dal proprio paese può essere considerato anche come valore aggiunto per arricchire il proprio curriculum.

 

ALESSIA