Racconto breve

Quella “mattina”, se così si può chiamare l’ora del risveglio nello spazio, i suoi occhi, appena aperti, avevano incrociato i primi raggi del sole che facevano capolino da dietro la Terra. Non era un qualcosa che avveniva così spesso, primo perché non sempre a quell’ora la vista dalla sua stanza era rivolta verso il pianeta blu, e secondo perché era ancora più difficile che quest’ultimo si trovasse, in quel momento, tra la stazione e la stella. Gli piaceva pensare che ogni uomo, quando inizia il giorno, si guarda intorno, si affaccia alla finestra di casa e osserva. C’è chi vede palazzi, grattacieli, il sole che si riflette sulle vetrate e sente il rumore del traffico cittadino, e chi vede la campagna, prati, foreste, montagne e intorno a sé il silenzio più assoluto. Anche lui, appena svegliatosi, aveva guardato fuori, e si era trovato davanti qualcosa di diverso. La Terra si trovava al centro di quella magnifica vista, affiancata dalla Luna a sinistra e dal Sole a destra. La parte del pianeta rivolta verso di lui era ancora parzialmente oscurata, ma già la luce iniziava a riflettersi sulle acque, facendo risplendere mari e oceani così come il piccolo satellite, che brillava come una grande gemma bianco avorio. E a questo gioco di luci, ombre e colori partecipavano anche le grandi nubi, che in alcuni punti oscuravano il pianeta, il verde delle terre nella zona già illuminata, tra quelle si distingueva parte dei vasti territori della Russia insieme alle le luci delle città ancora al buio, sulla costa Ovest degli States.
Anche in quel momento stava guardando fuori, ma non con lo stesso sguardo che aveva all’inizio del giorno. I suoi occhi neri erano fissi nel vuoto, spenti. I capelli corvini che gli ricadevano sul volto non sembravano infastidirlo. La bocca era priva di espressività ed emozioni, così come tutto il resto del corpo, che sembrava come immerso in uno strano liquido. Le guance erano diventate pallide, e i lineamenti, fino a poche ore prima duri e decisi, si erano trasformati in linee prive di una forma netta. L’immagine che dava era quella di un uomo che aveva perso tutto e che guardava fuori per cercare qualcosa a cui aggrapparsi, ma senza vedere nulla. Era stato il comandante a suggerire a tutti loro di ritornare nelle proprie cabine per passare gli ultimi momenti da soli, o per parlare con amici e famiglie, mettendo anche a disposizione la sala comune, per quanto piccola e modesta a causa del contesto, per chi volesse stare un po’ in compagnia. Era stato assurdo vedere una donna come lei, sempre sicura di sé e con un piano di scorta, arrendersi agli avvenimenti e al destino. Credeva che nessuno mai l’avesse vista provare quella sgradevole sensazione di impotenza che ci coglie quando siamo consapevoli di non poter fare nulla per raggiungere un certo obiettivo. Dopo aver fatto accuratamente gli ultimi calcoli e aver testato e vagliato tutte le possibili azioni e scelte che potevano compiere, si era girata verso di loro, ed era parso come se la vita l’avesse abbandonata per qualche secondo. Aveva ripreso subito il controllo di sé, per dare agli altri conforto e cercare di risollevare gli animi.
Era incredibile pensare che il computer centrale della stazione spaziale più avanzata dell’ultimo millennio, la Galilei, progettata da un team costituito dalle menti più brillanti del mondo, potesse aver sbagliato dei calcoli tanto semplici, per una macchina di quella complessità. Aveva infatti errato gli angoli di azionamento dei motori incaricati di tenere tutto il complesso in orbita, causando così uno spropositato uso di carburante che non poteva più essere compensato dall’energia prodotta dalla nave stessa, per tanto generata in quantità superiori rispetto alle possibilità offerte dalle innovazioni e tecnologie del tempo. Tutto ciò aveva portato a un corto generale, che andava dai sistemi di raffreddamento ai motori stessi. Avevano sì azionato il sistema d’emergenza con l’energia che veniva tenuta in serbo per situazioni di pericolo o imprevisti, ma bastava giusto per l’utilizzo del grande computer centrale e quindi, oltre ad analisi e previsioni, non potevano fare più niente. Chissà, magari mentre loro si stavano lentamente schiantando sulla Terra, laggiù qualcuno parlava di complotto, magari qualche invasato accennava ad un attacco alieno, ma dubitava che qualcuno potesse chiedersi come si stavano sentendo loro, lassù nel cielo.
In realtà in cuor suo sapeva che c’era almeno una persona che stava pensando a lui, magari non in quel momento, ma che lo avrebbe fatto non appena saputa la notizia. Le aveva promesso che sarebbe tornato molto presto, che non si sarebbe nemmeno accorta della sua mancanza per quanto questa sarebbe stata breve. La data del suo rientro era stata fissata da lì a un mese, a un anno dal suo arrivo insieme al suo team con la piccola Talete 24. Nonostante il tempo passato, la ricordava in ogni dettaglio. Slanciata, capelli neri, mossi, che giocavano con la luce e con il vento quando passeggiavano insieme all’aperto. La bocca piccola e aggraziata, incastonata in un viso d’oro, dalla pelle morbida come la seta. E al centro di tutto si trovavano due diamanti neri, grandi e belli come nessun’altra cosa al mondo. A volte si chiedeva se si fosse innamorato prima dei suoi occhi, che di lei, ma poi si rendeva conto che aveva potuto iniziare ad ammirarli solo dopo essere stato rapito dalla sua personalità, dal suo modo di essere. Ciò nonostante, ogni volta che li guardava era come se fosse la prima volta. Continuavano a catturarlo, rapirlo, per poi portarlo nei posti più sperduti, in luoghi paradisiaci e molto probabilmente inesistenti. Si era ormai convinto che una volta visti quei due occhi di ossidiana, nulla lo avrebbe più potuto sorprendere, e allo stesso tempo sarebbe risultato inutile girare per il mondo, perché era come se lo avesse già esplorato tutto nei minimi dettagli, dai luoghi più pacifici, a quelli più impervi. Ma quello che lo tramortiva lasciandolo in balia di quello sguardo era altro, era la luce. La luce che i suoi occhi riflettevano, pure quando non ve n’era attorno, come se dovessero perennemente brillare, come se la emettessero, fino a risplendere di luce propria. Durante tutto quel tempo si erano sentiti, sì, e si può dire che si erano anche visti, due figure proiettate su due schermi a una distanza abissale l’una dall’altra. Ma c’era qualcosa che una chiamata non avrebbe mai potuto dargli: il silenzio. Quel silenzio che lo faceva stare bene, il silenzio che lo circondava mentre la guardava, o quando lei dormiva, con la testa appoggiata sul suo petto e i loro respiri che si sincronizzavano fino a diventare un’unica cosa. Quei momenti che lui sognava spesso di vivere, ma che erano così lontani nel passato, e inesistenti nel futuro. Non voleva chiamarla in quel momento, non voleva vederla sconvolta, mentre piangeva. Preferiva immaginarla e continuare a ripetersi che sarebbe tornato da lei. Lui sarebbe sempre tornato da lei, in un modo o nell’altro.
Chiuse gli occhi. Li riaprì e guardò di nuovo fuori, verso il suo mondo. Una lacrima gli solcava dolcemente il viso. Ora anche i suoi occhi brillavano. Erano lucidi. Erano gli occhi di un uomo allo stesso tempo vinto e vincitore, di un uomo che voleva finire con il sorriso. Li chiuse di nuovo. Un pensiero gli attraversò la mente e, come se potesse sentirlo, sussurrò : “Non preoccuparti, sto tornando. Sto tornando a casa”.

di Niccolò Sergi 3^F
(Il Giornalotto del Liceo Volta, numero3/2019)