Estraniamento – Racconto

Mi sentivo galleggiare sopra tutto. Il mio corpo era steso su un pallido letto d’ospedale. Dei medici si affollavano intorno e provavano a rianimarmi con il massaggio cardiaco, altri mi tenevano ferma la testa per ricucire i tagli che i frammenti di vetro mi avevano procurato.
E poi un corridoio.
“Probabilmente non ce la farà” aveva affermato solenne un camice bianco.
Lacrime che sgorgavano dagli occhi di mio padre. Lacrime che sgorgavano dagli occhi di Cameron, il mio ragazzo.
Avrei voluto correre lì e abbracciarli. Dire loro che li amavo e li sentivo, che ero cosciente e ce l’avrei fatta. Ma vedevo solo il mio corpo disteso, incapace di muoversi, di parlare. Incapace di guardare.
Mi sentivo così leggera e al contempo pesante. Non mi sentivo fatta di niente e percepivo tutto, lo vedevo, anche senza occhi.
Le ore passavano. I dottori avevano collegato il mio braccio a una flebo e mi avevano messo dei tubicini al naso, per aiutarmi a respirare. La stanza era buia e anche i corridoi. La testa di mio padre era appoggiata sulla mia spalla. Mi aveva bagnato la maglietta.
“Non… non posso perdere anche te. Sei l’unica cosa che mi è rimasta di lei. Sei l’unica cosa che mi fa credere che alla fine ne sia valsa la pena di perderla, guarda che persona fantastica sei diventata. So che è improbabile ma spero che sentirai le mie parole e…” Un pesante singhiozzo l’aveva interrotto. Avrei voluto dargli un segno, qualunque cosa per fargli capire che lo sentivo e non lo avrei abbandonato. Cameron era allo stipite della porta. Aveva gli occhi rossi e da quassù percepivo il suo cuore a pezzetti.
“Ti amo, Sophie” mi aveva sussurrato all’orecchio dopo che mio padre era uscito, rivolgendogli un triste sorriso.
“Ti ricordi quando mi hai guardato con i tuoi occhi verdi la prima volta? E poi avevi subito riabbassato lo sguardo imbarazzata. Io ho continuato a fissarti spudoratamente. Tutto di te mi si è incagliato in testa e…” aveva trattenuto a malapena un singhiozzo. “Giuro… giuro che ci avevo provato a non pensarci. Ma quando mi sono reso conto che non c’era storia, ho girato la città per giorni per incontrarti ancora. Per fortuna facevi sempre lo stesso percorso. E poi i fatti si sono susseguiti così velocemente e tu diventavi ogni secondo più importante. Non puoi lasciarmi solo adesso, Sophie. Te lo chiedo per favore. Anche se forse sei in un posto migliore, ora. So che mi senti. Qui fa troppo schifo, lo so. E ti capisco se non torni. Però un pezzettino di paradiso ce lo eravamo costruito no?”
Non riusciva ad andare avanti. Ma io sentivo i suoi pensieri, erano tantissimi.
Avevo cominciato a pregare. Da quassù non potevo fare niente ma pregavo che il mio corpo gli mandasse un segno, anche piccolo. Un leggero movimento delle palpebre o delle dita. Ma niente. E alla fine le mie preghiere si erano rivelate vane e lui si era addormentato con la testa sulla mia pancia.

“Ce la fai a guidare, amore?” mi aveva chiesto Cameron, mezzo ubriaco.
“Ho bevuto solo un bicchiere di birra…” risi “Tranquillo”.
“Fa’ la brava” mi aveva raccomandato, accarezzandomi una mano. Mandai gli occhi al cielo.
“Sto solo tornando a casa da una normale festa, non sono ubriaca e non è neanche tanto tardi. Ci sentiamo dopo” dissi, per poi uscire dalla casa della mia compagna che aveva organizzato la festa.
“Vieni a darmi un bacio” aveva protestato Cam, con tono infantile.
“Sei troppo ubriaco. A domani” ridacchiai, uscendo.
Accesi la macchina e mi avviai verso casa quando la mia curiosità mi costrinse a guardare il messaggio che era appena arrivato sul mio cellulare. Abbassai lo sguardo, forse per un attimo di troppo e la macchina che aveva invaso la mia corsia in contromarcia mi era piombata addosso, prima che potessi svoltare sulla corsia d’emergenza.

E poi luce. Illuminava l’etereo sentiero su cui stavo camminando. Un sorriso smagliante mi aveva abbagliato. E una voce dolce.
“Amore… sei cresciuta tanto… Sei così bella.”
Allora era questa la voce di mia mamma? Avevo riconosciuto subito il suo viso. Era uguale alle foto che mi mostrava spesso mio padre. La sua voce era uguale a quella dolce che mi descriveva sempre.
Avrei voluto abbracciarla ma avevo paura che sarebbe scomparsa, tanto era impalpabile. Mi osservava.
“Hai un cuore grande. Lì dentro ci sono anche io, ricordalo sempre”.
“Mamma…” avevo sussurrato, incapace di dire altro.
Aveva volto la testa in basso e aveva guardato. Imitato il suo gesto, avevo visto la mia stanza d’ospedale e il mio corpo. I miei occhi erano leggermente umidi. Allora il mio corpo poteva ancora fare qualcosa? Forse non era morto.
“Vuoi ritornarci, laggiù? Tuo padre ti ama più di ogni altra cosa, lo sento. E quel ragazzo addormentato su di te, suppongo sia il tuo fidanzato, è totalmente annientato. Ti farà male stare nel tuo corpo in queste condizioni, non poterti muovere, non poter far capire che tu ci sei, sei viva. Ma ti risveglierai, te lo prometto”.
“Se torno là non potrò più rivederti, mamma?”
“Sarò sempre parte di te e della tua anima. Dovrai solo guardarti dentro e troverai le risposte a qualunque cosa. Anche qualche consiglio materno” aveva sorriso.
Niente è infinito. Sarei tornata lì, dentro il mio corpo ma dopo sessant’anni o settanta, me ne sarei andata e avrei scordato la mia vita, come se niente fosse mai stato. Forse sarei diventata un’altra persona e avrei ricominciato tutto da capo.
Che gioco strano.

Sentivo delle voci. Medici probabilmente. Ogni notte veniva un’infermiera. Sentivo ogni tre ore circa una sveglia suonare e lei che sospirava. Si avvicinava e, dopo che i dottori le avevano raccomandato che non mi venissero piaghe da decubito, mi cambiava posizione, anche se il mio corpo non percepiva niente. Era orribile, mi sentivo intrappolata e tutto il lavoro che i dottori facevano su di me pareva inutile. La fisioterapia non aveva risolto niente.
Mi sarei risvegliata, mamma me lo aveva promesso. E avevo percepito, in una silenziosa comunicazione, che non mi mentiva. Ma stavo ugualmente male. Era il prezzo da pagare, a quanto pare. Cam veniva sempre a trovarmi. La mattina, il pomeriggio. A quanto mi aveva detto mio padre, qualche ora dopo, non si staccava mai dalla sala d’aspetto.
La sera, quando l’infermiera apriva la finestra, sentivo le cicale e il rumore del vento. Quanto mi mancavano le sere d’estate, guardare le stelle, percepire il vento addosso, l’erba per terra. Mi mancava… sentire.
Passavano giorni, settimane. E io ero sola con i miei pensieri e le parole degli altri. Avevo completamente perso la concezione del tempo. Era ancora estate? A settembre sarei tornata a scuola? Avevo l’esame quell’anno. Avrei dato di tutto pur di riavere la mia vita, anche se sarebbe finita un giorno e io con lei. Il mondo andava avanti. Ma visto che ci aveva dato la possibilità… perché non farlo questo strano gioco di vivere?

Un paio di settimane dopo i miei occhi si erano aperti. Il soffitto era color crema. Avevo provato a muovere una mano ma senza risultati. Avevo perso la cognizione del tempo. Ero stata tanto tempo totalmente persa tra i miei pensieri e ad ascoltare le parole dei medici, di mio padre, del mio ragazzo. Dopo pochi minuti (o forse erano ore?) Cameron si era accorto che ero sveglia. Riuscivo a comunicare in uno strano modo, muovendo gli occhi da una parte o dall’altra.

I medici avevano ripreso subito con più entusiasmo di prima ad affacendarsi su di me, cercando un modo per risvegliare il mio corpo. Facevo ogni giorno fisioterapia e pian piano i muscoli e le mie ossa iniziavano a rispondere ai comandi. Era il 26 agosto. I giorni passavano veloci. Stavo imparando di nuovo a fare le solite cose. Una settimana dopo ero tornata a casa, sulla sedia a rotelle, in attesa che le mie gambe funzionassero bene.

Avevo ricominciato anche a guidare, un po’ di settimane dopo.
Ero in autostrada quel giorno. Sera tardi, tornavo da una festa. Stavo guidando a novanta chilometri orari. Volevo rallentare ma non ero in grado, il mio piede era piantato sull’acceleratore. Abbassai un attimo lo sguardo. Lo rialzai e il cofano di un camion era attaccato al mio, e non era fermo. La faccia di un autista ubriaco mi fissava. Io già lo conoscevo ma non guidava un camion, bensì una macchina. E io avevo il cellulare in mano quando lo vidi la prima volta. Ora aveva sul volto uno strano sorriso. Non vedeva l’ora di spappolare la mia auto sotto al suo camion. Gli occhi erano velati e aveva nella mano destra una bottiglia di Smirnoff. I secondi sembravano ore.

Mi svegliai di soprassalto con la fronte sudata. Sospirai. Non è ancora finita…
Penelope Riccobono / Liceo Classico Galileo di Firenze