Un fischio nelle orecchie e poco altro – Racconto

Il sole come un cavallo correva davanti a me veloce, mi lanciava i suoi zoccoli scottanti sulle palpebre. Non mi sentivo le gambe, erano intorpidite, e tanto meno la testa: una protuberanza del mio corpo, che era diventato una cassa di liquore. Provai ad alzarmi, ma scivolai su qualcosa di liscio e ricaddi sull’erba umida. Probabilmente avevo tutti i pantaloni verdi, come una tuta mimetica, e sentivo già dall’odore che avevo pestato qualche frutto marcio e putrido. Purtroppo non ricordavo dove fossi e con il sole dritto in faccia non riuscivo a vedere nulla, sapevo solo che la cosa liscia di prima era una bottiglia d’alcool. Ma cosa avevo fatto la sera prima? Non ricordavo niente.
Tentai una seconda volta di tirarmi su e, non incontrando ostacoli, ci riuscii; non restava che fare il punto della situazione e capire dove andare. Gli occhi s’erano un po’ abituati alla luce e quindi mi accorsi di essere in un campo d’erbacce alte e puzzolenti. L’odore penetrava nel naso e andava dritto al cervello, stordendomi e costringendomi a respirare con la bocca. Ero all’ombra di un grande albero ma non avrei saputo dire quale (la botanica non mi è piaciuta un granché).
Ad ogni modo capivo di trovarmi alla periferia della città: c’era infatti un diffuso strato di sottile fumo, nero e sgradevole a tutti i sensi, che probabilmente veniva dalle fabbriche. Mi accorsi solo in quel momento di un innaturale silenzio, teso e spasmodico, come in attesa di qualcosa.

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Ero accovacciato dietro a un vecchio trattore da lavoro, di quelli che solo in pochi usavano. Ero là dietro da almeno un’ora, incollato alla maniglia della portiera. Era tutta arrugginita e ricoperta di un muschio verdastro e viscido, da mettere i brividi; non riuscivo però a staccarmi e l’unica cosa che vedevo era il rosso sfumato della portiera, interrotto qua e là da alcune chiazze di grigio metallo, perché i pezzi di vernice si erano staccati. Il silenzio adesso era ancora più profondo ed agghiacciante, sembrava quasi che fossi rimasto il solo uomo sulla terra. Ci misi un po’ ad elaborare il pensiero che avevo appena formulato, ma quando capii, un rivolo freddo di sudore mi solcò la fronte. Quella non era un’idea così assurda, dopo tutto… Avevo ancora il fischio nelle orecchie, il solo rumore che un uomo può rammentare con così precisa nitidezza. Mi avevano già detto che producevano un frastuono tale da rimanere in testa per giorni, ma non immaginavo fosse così forte.

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Camminavo per le strade della città, impietrito. Muovevo solo le gambe con passo forzato, gli occhi fissi nel vuoto. Mi ero accorto che sanguinavo, ma non importava; erano anzi piacevoli i caldi fiotti di sangue sulle braccia e sui fianchi. Erano degli ottimi sostituti alla luce del Sole che era sparita, inghiottita dalle nuvole.
Dovevo trovare un posto sicuro dove potermi un po’ riposare e medicare. Non sarebbe stato sgradito neanche il ritrovo di qualche alcolico, di cui avevo bisogno più che mai in un momento tale. Avevo la testa puntellata da chiodi invisibili che entravano sempre di più in profondità, la schiena dolorante, come un tronco piegato dal vento, e infine le gambe tremanti per il dolore, che ad ogni passo diventavano più pesanti e più rigide, tanto che stavo per crollare.
Ad un certo punto, dopo aver percorso un altro centinaio di passi, collassai a terra, sbucciandomi ginocchia e gomiti, che iniziarono a bruciare come se avessero acceso quattro falò sul mio corpo. Speravo che qualcuno venisse a soccorrermi, ma nessuno si accorse di me; o forse, semplicemente, non c’era nessuno… che potesse aiutarmi. Avevo visto alcune persone, ma sembravano tutte addormentate, o forse peggio, ma non volevo pensarci. In uno spasmo di dolore alzai gli occhi e vidi l’insegna di quello che doveva essere l’ospedale.

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Mi distesi su una poltrona che avevo trovato e rimasi lì, impalato, per chissà quanto tempo. Mi trovavo nell’unica stanza accessibile dell’edificio, o di ciò che ne rimaneva. Cercai di rilassarmi su quella che in una situazione normale sarebbe stata una mediocre poltrona da sala d’attesa, ma che adesso era per me il posto più desiderabile sula faccia della terra. Stetti disteso non molto, perché scattai poi in piedi: in preda all’ira e all’ansia. Non sapevo cosa fare, avevo perso tutto, ed ero solo in un deserto grigio.
Mi sorpresi di provare un’unica sensazione: speranza. Ero un uomo a cui non era rimasto nulla, solo la speranza nel futuro.

6 agosto 1945, Hiroshima

Davide Agnelli / Liceo Classico Galileo di Firenze