Il semaforo – Racconto

Un mattino piovoso trascorso sulla mia auto polverosa, che inoltre trasudava di sacchetti della spesa ed ombrelli buttati sul tappetino dietro il mio sedile. Ecco come iniziò una giornata apparentemente normale: un ulteriore colloquio a cui non potevo fare a meno di presentarmi, nonostante non mi interessasse. Erano circa le sei del mattino quando, pettinato e lavato a dovere, guidavo sulla tangenziale sempre deserta (almeno a quell’ora) che seguivo tutte le mattine per andare in città; dopotutto gli unici lavori che potevo pensare di trovare dalle mie parti, in un paesino di campagna tra Minneapolis e Saint Paul dove nevicava sempre (giorno, notte, estate, inverno), erano o il cameriere o il commesso da McDonald’s: entrambi lavori in cui ero costretto a sorridere e a parlare con altre persone (cose che detestavo).
Arrivai in città intorno alle otto, fermandomi qualche decina di metri dietro il palazzo dentro cui si sarebbe tenuto il colloquio. Pioveva a dirotto. Afferrai di scatto un ombrello tra quelli impilati “quasi” ordinatamente in terra ed uscii, richiudendo lo sportello dell’auto velocemente, per non far entrare la pioggia. L’ombrello fece fatica ad aprirsi; per poco ebbi i capelli bagnati. Fuori la città era deserta e la nebbia ricopriva il cielo, nascondendo case e strade. Alzai gli occhi verso l’ombrello. Proprio davanti a me (o sopra; dipende dalle prospettive) c’era un buco. Un piccolo taglio fatto sulla stoffa, probabilmente da un odioso ramo; uno di quelli che di solito cadono giù dalle chiome degli alberi, creati (secondo me) apposta per rovinare gli ombrelli a chi si trova in mezzo alla strada in una giornata piovosa, come questa.
Mi ero svegliato con la luna storta: una chiamata nel pieno della notte dalla segretaria di un certo Cliff Parker; un’offerta di lavoro facile da avere, probabilmente (almeno è quello che speravo).
Mi avvicinai al ciglio della strada, aggrappandomi ad un quasi-invisibile palo. Riuscivo a scorgere, proprio al di là delle strisce, solo la luce sbiadita del semaforo, ovviamente (vista la fortuna che avevo alle calcagna), rossa.
Sperai, palpando attorno al palo, che ci fosse un bottone. Sapevo che sarebbe stato inutile, anche se l’avessi trovato. Mi rassegnai. Incrociai le braccia, strofinando le mani sul petto. Iniziai a saltellare, visto il freddo che faceva, non risparmiandomi il più che opportuno “brrr”, anche se immaginavo che non sarebbe cambiato nulla.
Abbassai lo sguardo giù, proprio verso i miei piedi, o meglio, verso le gocce di pioggia che cadevano silenziose sulle scarpe. Mi tremavano ancora le gambe. Secondo quanto ricordavo dalla mail che mi era stata mandata, l’ufficio del signor Parker era poco più avanti.
Perché mai avrebbe dovuto chiamare me? Nessuna esperienza, a parte un lavoro part-time durato qualche settimana come cassiere in un supermercato. Ovviamente ero stato buttato fuori dopo poco tempo: avevo aggredito un cliente. Non ricordo neppure il motivo.
Sempre la stessa storia: trovavo un posto in qualche insulsa piccola attività e venivo subito licenziato; poi ne trovavo un altro e venivo buttato fuori dopo poco, rimpiazzato da qualcuno di “migliore” rispetto a me. Pensai: “Stavolta sarà diverso, dai… sarà la volta buona”, ma non ero del tutto sicuro.
Alzai nuovamente lo sguardo verso il semaforo. Rosso.
Mi concentrai un attimo sul rumore delle gocce d’acqua che cadevano sui miei piedi; ormai il temporale si era trasformato in una pioggia leggera. Chiusi l’ombrello. Non m’importava più del colloquio, né tanto meno del buco nella stoffa. Tutto quello che avevo in mente in quel momento era fermarmi a respirare, poter sentire finalmente l’acqua che scendeva dalla mia testa lungo il viso, come un pianto. Scappare correndo lungo quella strada, lasciandomi alle spalle le scelte (ovviamente non mie) che mi stringevano in una morsa di odio represso. Chi me l’aveva fatto fare di essere lì quel giorno? Sarei voluto andarmene abbandonando tutto…
A questo punto la storia di una banalissima mattina piovosa non poteva che finire con me che attraversavo la strada, entravo in ufficio, mi presentavo, facevo la mia solita bella figura (come ogni volta, del resto), venivo assunto, ritrovandomi dopo qualche tempo al punto di partenza, davanti allo stesso semaforo, dopo aver perso il lavoro, alla ricerca di qualcosa che forse, chi sa, “potrebbe essere diverso”.
Ancora oggi mi continuo a chiedere se fu per me una fortuna o no che quel giorno non riuscii a presentarmi da Cliff Parker. Magari mi sarei potuto sbagliare. Forse adesso, se non fossi stato investito, starei lavorando in un bell’ufficio con una carta da parati grigia, firmando moduli su moduli. Avrei avuto una segretaria ed anche un altoparlante, come quelli usati dagli uomini importanti nei film. Chi sa…

Edoardo Merlini
Classe / Liceo Classico Galileo di Firenze