Sottovuoto – Racconto

Fuori pioveva, le gocce battevano sul vetro, silenziose.
Io, seduta alla finestra, le guardavo, assente. Mi sfuggivano davanti agli occhi: correvano troppo veloci su quel vetro. Il cielo mandava bagliori luminosi, che riflettevano, mandando una luce accecante, sulle gocce sul vetro.
Lentamente mi voltai: gli altri ragazzi stavano giocando tra di loro, correvano, ridevano, si nascondevano gli uni dagli altri, noncuranti del temporale. Quanto li invidiavo… Quanto mi sarebbe piaciuto sentire le loro – e le mie – risate, quanto mi sarebbe piaciuto sentire i tuoni durante i temporali, gli uccellini che cinguettano durante la primavera e le onde del mare che si infrangono sugli scogli. Mi sarebbe piaciuto così tanto, ma devo accontentarmi di guardare tutto dalla finestra di un orfanotrofio, perennemente seduta su una sedia, da ormai quindici anni. Già… quindici lunghi anni. I miei genitori, appena scoperta la malattia, presero la decisione di portarmi qui, non volevano una malata tra le mani.
Mentre ero persa nei miei pensieri, mi si avvicinò Joceline, materna come sempre, che mi porgeva, sorridendo, quello che sembrava un foglio.
«Non ci leggo…» sussurrai, «non ci leggo niente Jo…». La voce che mi uscì di bocca era strozzata, la mia gola era dilaniata da un mostro nero e silenzioso, chiamato “Usher”. Allora sentii la mano di Joceline che mi batteva dei piccoli colpi sulla spalla, quello era il nostro altro modo per comunicare; le parole si stamparono chiare nella mia mente, questo era quello che Joceline mi stava dicendo: «Stai peggiorando, Violet. Anzi, sei peggiorata».
Scoppiai a piangere, sentivo le lacrime scendere a fiumi lungo le mie guance: ecco perché non riuscivo a vedere le gocce, non erano loro che scorrevano troppo veloci, ero io che non ci vedevo praticamente più. Sentii Joceline che mi abbracciava stretta, la sua bocca vicina al mio orecchio: smemorata come era, capitava spesso che si dimenticasse che io non riuscivo a sentire niente.
Da quel pomeriggio, la vita in orfanotrofio per me diventava sempre più dura, giorno dopo giorno: gli altri ragazzi mi escludevano, non riuscivo a vederli né a sentirli, ma li percepivo distanti, e percepivo chiaramente le loro prese di giro.
Una notte poi, dei colpettini sulla spalla mi svegliarono: «Ti ricordi quanto ti piaceva suonare la chitarra Violet? Lo ricordi? Che ne dici domani di zittire tutti? Di suonare quella canzone che ti piaceva tanto…»
«Jo?» sussurrai, «Sei impazzita? Non vedo e non sento niente, come pensi che possa essere capace di riuscire a suonare Wonderwall?»
«Io mi fido di te Violet. Mi fido ciecam… completamente di te» mi disse picchiettandomi piano sulla spalla.
Mi ritrovai a sorridere, mi ritrovai a sedere, non so come, sulla mia sedia, accanto alla finestra, con la chitarra in mano. Sentivo che erano tutti davanti a me, tutti lì che mi fissavano. Non ci pensai due volte: avevo paura, certo, ma una lucina si stava facendo strada dentro di me. Sorridevo mentre spostavo le mani sopra le corde fredde della mia amata chitarra, riproducendo la canzone degli Oasis. Per quella manciata di minuti mi sentii completamente libera, completamente uguale a tutti gli altri ragazzi.
Finita la melodia, sentii un groviglio di mani picchiettarmi tutto il corpo: Joceline aveva insegnato loro come comunicare con me, tutti si stavano congratulando con me. Un picchiettio mi scaldò più degli altri: «Staremo sempre a giocare intorno a te. Non sarai più sola. Ci hai regalato la speranza, ci hai insegnato che tutto è possibile».
Sorrisi. Usher, sono riuscita a sconfiggerti, almeno per la manciata di minuti di una canzone…
Laura Cappelli / Liceo Classico Galileo di Firenze