La coscienza di un maturando, nell’anno del coronavirus

Di Emanuele Caviglia

 

Premessa: Da quando il Coronavirus, covid-19 o come lo vogliamo chiamare, è divampato in Italia e nel resto del mondo, sono usciti migliaia se non milioni di articoli su come bisogna comportarsi, come sconfiggeremo il virus, come sarà il mondo dopo la pandemia. Alcuni buoni, altri un po’ meno, altri ancora geniali o invece illeggibili. Io, non avendo intenzione di assurgermi a chissà quale esperto della situazione, di cui forse sono pure abbastanza ignorante rispetto alla media, preferisco, mettiamola così, tracciare un altro sentiero. Concordando sul fatto che il Coronavirus abbia impattato le nostre vite come un carro armato contro una Smart, ho deciso di raccontare l’evento che segnerà maggiormente l’esistenza di tutti noi, con una particolarità: ossia, farlo nell’anno che a sua volta avrebbe dovuto più di tutti segnare la mia, di esistenza, l’anno della maturità. Il frontale che fa l’evento del XXI secolo con il periodo più indimenticabile della mia vita è di proporzioni epocali.

 

Caro Venditti, dimmelo tu se le bombe delle sei fanno male o no, se mio padre assomiglierà mai a Dante, e se l’unica notte di polizia la vivrò se con quegli scellerati dei miei compagni usciremo violando il lockdown, la sera prima del nostro esame. L’unica cosa che so’…è che certo sta cavolo de maturità (scusate il romanesco, ma è la rabbia dello sfogo) la potevo prende prima, e pe’ davero! Se solo nun me fossi fatto boccià in terzo! Tutto questo preambolo, per dire che racconterò questa drammatica storia da un altro punto di vista, quello di un maturando, che in giro onestamente non ho sentito da nessuna parte, o almeno non così. Non ho la presunzione che i miei fatti vi interessino, ma visto che siamo tutti 18/19enni e qualcosa in comune dovremmo pur averla, mi auguro di rappresentare con questo racconto più ragazze e ragazzi possibili. E se non doveste riconoscervi in neanche una sola parola di quello che scrivo, beh, spero almeno di abbellire la mia storia con uno stile che vi faccia sorridere, con la coscienza comunque di una cosa: una maturità così la racconteremo per tutta la vita.

 

L’ULTIMO (?) GIORNO DI SCUOLA

Non vi perdonerei mai se l’ultimo giorno di scuola della mia vita dovesse essere un anonimo venerdì 28 febbraio, in cui peraltro sono pure uscito due ore prima per un impegno. Manco mi avete avvisato. Non mi avete nemmeno dato il tempo di salutare compagni, professori, bidelli, le mura della mia scuola. Se avete bene a mente la cronologia di quegli strani giorni di fine febbraio/inizio marzo, vi renderete conto che c’è qualcosa che non va in quello che dico, perché il governo ha deciso di chiudere le scuole in tutta Italia da mercoledì 4 marzo. Ebbene, il caso ha voluto che nel weekend il sottoscritto si dovesse prendere la febbre, e che dunque saltasse anche gli ultimi giorni di compagnia; se ci ripenso mi mangio le mani. Sono un tipo abbastanza nostalgico, per cui già negli ultimi mesi sapevo che il mio liceo, il classico Pilo Albertelli di Roma, mi sarebbe mancato da morire; per questo motivo stavo provando a godermi ogni istante, cercando di accettare che sarebbe dovuto arrivare il momento dell’addio, in cui il mio amico Pilo avrebbe dovuto lasciare la mia mano. O forse io avrei dovuto lasciare la sua.

Arriviamo a mercoledì in cui mi ero pienamente ripreso per tornare a scuola il giorno dopo, avevo un’interrogazione di latino giovedì e un compito di scienze venerdì; stavo studiando insieme a una mia compagna, e arriva il fulmine a ciel sereno. Molti ora si rendono conto di quanto sia duro non stare tra i banchi, ma io l’avevo capito già da prima: “A Marì, detto fra noi, poco male che de scienze nun sapevo nulla, ma t’emmaggini du settimane senza annà a scola?”

 

I 100 GIORNI

Più mi ci sforzo e più dei primi giorni senza scuola mi ricordo ben poco. Sarà che forse nessuno aveva realmente idea di ciò che stava succedendo, per cui pensavamo fosse un periodo un po’ diverso dal solito, ma nulla di più. Questo è testimoniato dal fatto che, nei giorni immediatamente successivi alla chiusura, con i miei compagni abbiamo persino trovato il tempo di litigare sui famosi 100 giorni. Avevamo fatto davvero un bel lavoro. Anzi, ad onor del vero, “avevano” fatto un bel lavoro. Un gruppo di compagne di classe si era impegnato molto per cucinare dolci, portare bicchieri, fazzoletti, ecc. Il mio compito era quello di andare via da loro con il piatto pieno e tornare con le briciole, il che significava un sacco di soldi. Mi avevano affidato quella mansione, perché (sì, me lo dico da solo ma posso assicurarvi che è vero) con la gente ci so fare, ho tanti amici, faccio il cretino in quel sottile spazio che consente di far divertire e non essere biasimato. Almeno quasi sempre. Ovviamente il grosso del merito va alle mie amiche, ma ero abbastanza orgoglioso di avere avuto successo nel mio lavoro. Ogni tanto qualche professore tirava fuori pure le banconote, lì si che era vittoria. Avevamo totalizzato una cifra leggermente inferiore ai 400 euro, qualcosa di clamoroso. Quei soldi ci regalavano 3 giorni in un casale in Toscana, a due passi dal mare. Domenica 8 marzo ero con i miei presso il Lago di Trevignano, nell’ultima sortita fuori porta prima del lokcdown nazionale, davanti a un bicchiere di vino e all’acqua limpida (ah, bei tempi!). A un certo punto il telefono comincia a emettere qualche suono. Ignoro per alcuni minuti. Poi però un altro, un altro e un altro ancora. “Scusate ma devo controllare un istante Whatsapp, non vi offendete”. Era successo il finimondo. Messaggi, contromessaggi e contro-contromessaggi smuovevano un’innocente domenica di sole perché alcuni, vista l’emergenza, cominciavano a insinuare dubbi: “Ragazzi non sarà mica il caso di evitare? Siamo 3 giorni nella stessa abitazione, che ne sappiamo se uno di noi è infetto ma asintomatico; poi torniamo a casa, contagiamo i nostri parenti e ce li giochiamo.” “Ma no dai, ti pare che proprio tra noi 24 deve esserci uno che ha il Corona? Io questo weekend sono andata a Napoli e si sta una crema. Piuttosto, abbiamo tutti un posto in macchina?” Capite la distanza fra queste opinioni. Da lì può solo che nascere inevitabilmente un tiro alla fune, prudenti contro impavidi, sbilanciato dalla parte dei prudenti che

poco a poco si sfilavano dalla corsa verso la Toscana, lasciando i temerari sempre più soli. “Eh ma poi con i soldi come facciamo? Noi ormai abbiamo pagato tutto”. Apriti cielo, un domandone che per il momento lasciava tutto aperto. Per fortuna, o per sfortuna, dipende dai punti di vista, pochi giorni dopo ci ha pensato il nostro Presidente del Consiglio a chiudere ogni discussione: “Da domani ogni attività non essenziale sarà chiusa, e sono vietati gli spostamenti da regione a regione.”

 

DIDATTICA A DISTANZA; RAPPRESENTANTI ALZATE LA VOCE

Stavamo cominciando a capire che quello che avrebbe dovuto essere un supporto temporaneo, un ponte fino a che le cose non si sarebbero sistemate, sarebbe diventato la nostra abitudine. Per questo, noi e la scuola dovevamo prendere il concetto di didattica a distanza molto più sul serio di quanto fatto prima. E non eravamo affatto preparati. Il Pilo Albertelli ha scelto di adottare la piattaforma Moodle per lo svolgimento delle lezioni online, sconosciuta quasi a tutti. Il problema era che, quando contemporaneamente 800 studenti devono essere registrati su un sito fatto alla bell’e meglio, qualcosa va storto per forza: “Ao quarcuno de voi riesce a entrà?” Per i primi giorni, anche comprensibilmente, la piattaforma si impalla e i ragazzi non accedono. The show must go on, però, e alcuni insegnanti decidono di andare avanti col programma nonostante docenti e studenti andassero a due velocità diverse: “Emanuele e D., potete parlare col prof per la quantità assurda di roba che sta dando?” Certo, come non farci mancare nulla. Vi avevo occultato che ho

scelto l’anno peggiore di tutti per diventare rappresentante di classe; la maturità, il campo scuola sfumato all’ultimo dopo aver già pagato, ora pure la didattica a distanza. Fare il rappresentante in teoria è abbastanza semplice, ma quando ci sono grane da risolvere diventa estremamente complicato, perché devi sostenere le ragioni della classe senza andare troppo addosso ai professori, che alla fine se la prendono sempre con te e mai con la totalità.

Intanto si continua con la registrazione sulla piattaforma, che tra username, nome-cognome e password sta cominciando ad assumere contorni tragicomici. “A me sicuro me l’hanno storpiato in maniera clamorosa”, sentenzia un mio compagno di origini egiziane, che all’anagrafe può vantare ben tre cognomi, ma che diciamo preferirebbe snellire. Inutile dire quando un supplente che non lo conosce si mette a fare l’appello…

“Regà questi so’ matti, ci controllano pure quanto stamo sulla piattaforma! Che so ‘a CIA?” “Scusate ma poi s’è più capito come funziona? Cioè ci mettono delle lezioni registrate?” Continua a imperversare il panico generale, ma la confusione prima ancora che essere tra di noi è tra i prof, che visti gli iniziali malfunzionamenti hanno dirottato alcune lezioni su un’applicazione, Zoom, svolgendole addirittura in diretta. Poi, intendiamoci, ci sono anche prof e prof, per cui alcuni sono inattaccabili anche dal primo dei rivoltosi, altri se la vanno un po’ a cercare: “Emanuele e D., quel prof lì è letteralmente sparito e assegna cose senza spiegare mezzo minuto, scrivetegli qualcosa.” “Ma come, de quell’altro stavate a dì che dava troppo e ve lamentate che questo spiega poco? Ma che figura ce famo se io comunico ‘sta cosa, ci contraddiremmo!” Mamma mia, dovrebbero darci la paga a fine mese a me e a quell’altro santo del mio compagno, da quando è cominciata la quarantena avremo scritto 4 lettere, ci stanno mandando letteralmente al manicomio. Ad un certo punto lui rassegna pure le dimissioni, ma dopo una chiamata di 57 minuti in cui lo pregavo di non lasciar affondare la barca, e due giorni di riflessione, ritorna in sella per continuare insieme il lavoro.

 

Tra una cosa e l’altra, alla fine, riusciamo a riprendere le lezioni. Non l’avrei mai detto, ma siamo ancora più vanitosi via computer che dal vivo. Diamoci una pettinata prima di andare in onda, vediamo un po’ come sono vestiti gli altri, e guarda quanti di noi hanno cambiato stile! Chi si è rasato i capelli, chi se li è tinti, chi si è fatto crescere la barba. Quantomeno questa quarantena ci ha dato la possibilità di fare qualche esperimento prima di esporci al pubblico. E poi, pure queste videolezioni non sono affatto male, sono un altro spazio che amiamo condividere con i nostri amici, compagni, professori. Ci rifiutiamo di credere che il nostro ultimo anno scolastico sia finito così bruscamente dopo un lungo cammino, e non meriterebbe una fine così ingiusta e disonorevole.

 

MI RITORNI IN MENTE…

La quarantena comincia a farsi sentire. L’idea di dover rimanere confinati tra le quattro mura è angosciante, ci mastica lentamente giorno dopo giorno. Voglio uscire, devo uscire, faccio avanti-indietro in continuazione. Lo spazio più ambito da tutti gli italiani adesso è diventato il balcone, l’unico tentativo per affacciarsi metaforicamente alla vita. E’ pur sempre però una visuale ristretta, vorremmo vedere di più. E allora lo immaginiamo. Così come proprio poco tempo prima ripassavo “L’infinito” di Leopardi, in cui il poeta si finge un paesaggio sconfinato nonostante un ostacolo impedisse la sua vista, mi ritrovo a far lo stesso con l’angolo del parco su cui si affaccia il mio balcone. Cerco di farmi spazio, piego l’albero lontano con la forza del pensiero per vedere solo un metro in più di libertà. Nei prossimi giorni dovrò comprarmi un binocolo, magari riesco a entrare ancora di più in quel minuscolo spazio. Altro passatempo preferito dagli italiani in questo periodo, sempre dal balcone, è il flashmob della canzone delle 18. Un brano di un artista italiano da condividere con il vicinato, in modo da far rimbombare tutta la via ed unire i cittadini simbolicamente sotto la stessa voce. Un giorno si optò per “Il cielo è sempre più blu” di Rino Gaetano. “Chi vive in baracca, chi suda il salario, chi gli manca la casa, chi vive da solo, chi arriva agli ottanta, chi muore al lavoro (mai così attuale…)…MA IL CIELO E’ SEMPRE PIU’ BLU!” Un po’ come dire che, nonostante se le migliaia di storie di ognuno di noi, alla fine siamo sempre tutti sotto lo stesso tetto. E anche questo, ha riportato la mia mente a qualcosa imparato tra i banchi di scuola. Il carme di Orazio “A Mecenate”, fatto quest’anno e ispirato forse a un carme di Saffo studiato invece lo scorso, recita: “Ci sono quelli che sul carro amano battere la polvere d’Olimpia, quelli che una vittoria li trascina fino agli dei; agli uni piace se i romani in folla gareggiano a votarli alle triplici cariche, quest’altro gioisce nel solcare con il sarchio i campi, e non lo smuoveresti nemmeno per tutto l’oro del mondo a traversare l’Egeo in tempesta.” Anche qui troviamo l’idea sulla cosa più bella del mondo, che smuove la volontà degli esseri umani; ma alla fine -aggiunge Gaetano- siamo tutti sotto lo stesso cielo, e non ci potrebbe essere niente di più semplice.

In questi momenti di fantasia, capita spesso di pensare a cosa avverrà dopo, quando potremo finalmente condurre una vita semi-normale e rivedere le persone a noi care. “La prima cosa che faccio finisce la quarantena è…” avrò detto e sentito questa frase migliaia di volte. Forse non farò per prima nessuna delle cose esplose dalla mia bocca in questo periodo di delirio, sicuramente però seguirò la strada tracciata da un filosofo che mi è capitato di ripassare recentemente, Friedrich Nietzsche. Sicuramente uscirò di casa con un attaccamento verso ogni cosa, un sì alla vita, con uno spirito dionisiaco che mi porterà ad una gioia sfrenata e irrefrenabile nei confronti dell’intera esistenza. Per ora, però, bisogna rimanere legati a casa. E quelle rare volte che si esce dalle quattro mura, è necessario mantenere una cautela chirurgica. Tra dicembre e gennaio il nostro insegnante di fisica ci ha assegnato un libro, “Flatlandia”, che parlava di un mondo distopico in cui gli unici abitanti erano delle figure geometriche, divisi in una rigida gerarchia, che non potevano riconoscersi a prima vista e per farlo dovevano “tastarsi” con estrema prudenza, perché le figure con gli angoli più acuti avrebbero potuto ferire letalmente ogni avvicinamento sconsiderato. “Mamma mia che ansia terribile vivere così”, ho pensato tante volte leggendolo. Beh, ora invece, tra guanti, mascherine, e distanziamenti sociali, sto vivendo la stessa cappa di inquietudine sulla mia pelle.

Tutte queste rimembranze, che poco alla volta mi appaiono come delle visioni, sono il lascito che il mio amico Pilo mi sta dando in questo periodo di distanza, sono la mano che mi sta tendendo per non lasciarmi del tutto solo. E io, da bravo compagno, gliela porgo, visto che ancora non è arrivato il momento di separarsi.

 

MA QUANDO TORNIAMO?

Prima il 18 marzo, poi il 3 aprile, poi tante altre date. A un certo punto, però, si arriva allo spartiacque: il 18 maggio. Se entro quella data si tornerà fra i banchi, la maturità si farà come l’abbiamo sempre conosciuta, amata, odiata. Altrimenti, solo esame orale. Ed è il dilemma numero uno, ma che giorno dopo giorno viaggia verso una sola direzione. Il secondo, ben più incerto, è: potremo rivedere i nostri banchi in qualità di studenti, un’ultima volta, il giorno del nostro esame? O saremo costretti a fare una maturità digitale? E’ un pensiero che mi angoscia, quello che al posto di uscire dalla classe accolto dai miei amici come un vincitore, dica a mamma e papà: “Oh io entro in camera, faccio la maturità e ci rivediamo in soggiorno.” E’ il mio incubo. Vi prego, non così. Leggevo sul Corriere della Sera un articolo di Paolo Giordano, che tra l’altro l’anno scorso fu anche invitato in classe nostra per discutere di un suo libro, su quanto sia importante l’esame di maturità, al di là di ogni retorica. Queste sono alcune delle sue parole a mio avviso più significative: “L’inedito assoluto dell’esame di maturità è che, per la prima volta, un gruppo di adulti in veste ufficiale è lì per ascoltare te, solo te, quello che hai capito, quello che hai imparato, quello che hai realizzato. Un gruppo di adulti che rappresenta un’entità ancora più ampia: lo Stato, il consesso sociale. Senza temere l’enfasi eccessiva, si può dire che l’orale di maturità è un venire al mondo, nel senso che il mondo si accorge di te. Finalmente ti prende sul serio. Per molti ragazzi si tratta di un’occasione unica, che non si ripeterà in seguito. […] Lo so, dovrei finirla qui, ma non mi basta ancora: insieme all’orale a scuola dobbiamo fare di tutto per salvare il tema. E’ l’altra parte

fondamentale di quell’ascolto che spetta ai ragazzi che stanno per maturarsi. Se è impossibile averli tutti contemporaneamente a scuola, facciamoli scrivere a casa, senza valutarli, facciamoli scrivere. Anche solo per una ragione egoistica: perché i loro temi di quest’anno costituiranno, un giorno, un archivio storico di valore enorme, la testimonianza di una generazione che diventa adulta in un punto di svolta della storia. Qualcuno li studierà, per capire ciò che stiamo attraversando”. Parole sante, grazie per aver tirato fuori quello che penso anch’io, ma con uno stile decisamente migliore. Anche perché sennò, scusate, ma perché lo starei a scrive io ‘sto racconto, se non per avé ‘na traccia de quello che me passava pe’ la testa (e che me auguro passasse pe’ la testa de più maturandi possibile) quando ero poco più de un pischello? Quello che ho scritto all’inizio -ossia che ci racconteremo di questa maturità per tutta la vita- varrà solo se avremo, oltre ai ricordi, anche delle prove tangibili. E, se il latino mi viene in soccorso ancora una volta, scripta manent.

 

AHH L’ESTATE DELLA MATURITA’…

“Allora regà, Grecia, Ibiza o Interrail?” E’ la domanda che più o meno si fanno ogni anno gli studenti, nella famosa estate post-esame. Anche quelli, senza troppa retorica, sono ricordi che si portano dentro per sempre; si fanno le cose più pazze, indimenticabili, che spesso rimangono solo tra chi ha partecipato, senza uscire dalle loro bocche. Per fortuna (o per sfortuna, dipende dai punti di vista), tra i 100 giorni e il campo scuola salutato all’ultimo, non avevamo avuto neanche il tempo di parlare troppo di quest’altro rito di passaggio; qualche idea buttata là dopo le vacanze di Natale, nulla di più. Certo è, che però il Coronavirus ci sta portando via anche questa. In tv e sui giornali già si parla di scordarsi l’estate 2020, tra distanziamenti sociali e persino lettini separati da barriere di plexiglass. Fatemelo dì, manco un carcerato che riceve ‘na visita dai parenti c’ha così tante divisioni. Se penso che la mia estate della maturità potrebbe consistere in un giro di palazzo e un caffè al bar -ammesso che li riaprano- al giorno, mi viene da buttarmi giù dal balcone. Dico

davvero, diventa una tortura cinese così. Dipende tutto da ‘sti cacchio de contagi, se diminuiscono e quanto diminuiscono. Il mio momento di maggior fibrillazione è quando sull’orologio scoccano le 18:00, con la conferenza stampa della Protezione civile. “Borrelli facce sognà”, penso tra me e me. Ormai il mio supereroe è diventato il direttore della Protezione civile, pensa come stamo messi. “Ti prego Angelo (in tutti i sensi), dicci che è tutto finito, dicci che potremo tornare alla normalità, che il virus è incredibilmente scomparso e non lo sapete neanche voi perché. Ma soprattutto, dicci che questa estate la potremo fare come tutte le altre, e che il tempo non ci stia rubando i 3 mesi più indimenticabili della nostra vita”. I numeri però non scendono, continuano ad essere stabili. Sto perdendo tutto, stiamo perdendo tutto, questi giorni non ce li ridarà nessuno, tutto questo per colpa di un cazzo di virus che è l’incrocio tra un pipistrello e un animale altrettanto schifoso simile a un serpente. Chi me lo fa fare di svegliarmi ogni giorno e rivivere sempre lo stesso identico loop?