Violino in mezzo al mare – Racconto

Il “Re” mi aveva sempre ricordato l’azzurro. Non ero mai riuscito a carpirne il perché. Quando vidi il mare dal bordo di quella bagnarola, pensai a una sequenza infinita di “re”, alti e bassi, a seconda della tonalità delle onde, che si susseguivano incessanti sulle righe di un invisibile pentagramma.
Poi, tutto a un tratto, vidi solo il nero.
Non percepivo più nessuna sensazione, era come se i miei sensi fossero stati disinibiti. Sentivo solo di star andando giù, sempre piú giù. Strinsi il mio amato violino, riuscivo a fare solo quello.
Il violino, l’ultimo regalo di compleanno che avevo ricevuto dai miei genitori, l’ultimo e unico regalo che avessi mai ricevuto. Ho sempre avuto la passione per la musica, in particolare per il suono indescrivibile del violino, così i miei genitori, sacrificando i risparmi di una vita, me ne avevano comprato uno per il mio undicesimo compleanno, e poi non me ne sono più separato. Mi esercitavo tutti i giorni, poi è scoppiata la guerra e abbiamo dovuto lasciare il nostro paese per scappare e sperare in un future migliore; i miei genitori mi avevano ordinato di mettere nello zainetto solo le cose necessarie per sopravvivere e di lasciare il mio violino nella nostra casa, ma fu il primo oggetto che misi nello zaino.
Dopo un viaggio durato giorni, ci eravamo imbarcati su quella precaria bagnarola, stipati gli uni sugli altri, terrorizzati. Strinsi forte lo zaino, avrei preferito morire piuttosto che vedere il mio strumento rotto. Ormai eravamo a quattro giorni di navigazione, stremati, con le provviste che iniziavano a scarseggiare, su cento persone che eravamo, dieci erano già morte: tre donne, due bambini, cinque uomini. Le notti passavano lente, sballottati qua e là dal mare impietoso, ma io avevo il mio violino, la mia sicurezza.
Poi, dopo dieci giorni di traversata, un temporale, un’onda alzata dal vento, la barca rovesciata, le urla dei miei compagni, lo zaino stretto a me, la luce del sole, il buio, la testa che scoppia.
Quel viaggio maledetto sembrò durare un’eternità. Man mano che scendevo, sentivo la testa oppressa dalla crescente pressione, sentivo come se le orecchie mi stessero sanguinando. Mi importava solo di tenere stretto il violino, se proprio fossi dovuto morire, lo avrei fatto stringendo quel legno che mi aveva sempre fatto sentire vivo. Mentre i flutti continuavano a trascinarmi sul fondo del mare, la mia testa, completamente in balia della pressione, mi provocò dei flash colorati.
Bianco, bianco, rosso, blu, blu, rosso, bianco, verde. Poi tutto diventò nero: assenza totale di colore, forse ero morto. Non sentivo più niente, non sentivo più nemmeno di star andando giù. Poi, ad un tratto, ecco altri lampi: giallo, giallo, verde, bianco, bianco, verde, verde. Poi, di nuovo il buio.
Ad un tratto, poi, riuscii a riprendere la sensibilità nelle mani, sentii che il mio violino era stretto a me, o meglio, sopra di me, sopra di me, che mi tirava su, voglioso di tornare a suonare con me.
Verde, verde, bianco, giallo, verde, bianco, rosso, bianco, giallo. Verde, bianco, rosso, bianco, verde, giallo, verde, blu. Questi furono gli ultimi colori che vidi, poi sentii due mani stringersi attorno alle mie braccia.
«Questo è un miracolo, non ci riesco a crederci. È l’unico sopravvissuto!» furono le uniche parole che sentii, prima di perdere i sensi, stringendo al petto il mio strumento.
Non so quanto rimasi svenuto, non ricordo niente, solo quella sequenza di colori che mi rimbalzava nella testa. Ad ogni colore avevo associato una nota e quella sequenza di note aveva dato vita a una melodia, che mi ricordava una composizione che avevo sentito da qualche parte, ma di cui non ricordavo praticamente nulla.
Quando poi, ad un tratto, aprii gli occhi, vidi che mi trovavo su una nave della Marina Militare Italiana, dove sventolava quella bandiera verde, bianca e rossa, i tre colori che avevano dato un ordine alla mia sequenza sconnessa.
«Il mio… » sussurrai «il mio violino…» e un ragazzo sorridente me lo porse: era un miracolo che non si fosse sciupato. Lo presi tra le mani e me lo appoggiai sulla spalla sinistra, come ero solito fare. Poi presi l’archetto e cominciai a suonare quella sequenza di note, strisciando velocemente l’archetto sulle tese corde.
«Sta suonando l’Inno alla Gioia!» esclamò un militare. Io non aprii gli occhi, e, finita l’esecuzione, ricordai la composizione di Beethoven, che avevo sentito una sola volta in vita mia e che mi era tornata in mente sconnessa mentre stavo andando giù. L’avevo fin da subito associata alla speranza, e quei tre colori me l’avevano resa realizzabile, dando un ordine a quelle note.
Strinsi al petto il violino, che avevo portato via disobbedendo ai miei genitori. Mi aveva salvato la vita, e la musica mi aveva regalato una seconda possibilità.
Laura Cappelli – Classe 5B / Liceo Classico Galileo di Firenze