Alla pari – Racconto

«Ila, cosa stiamo aspettando?»

Non lo sapeva. Un segno, forse, un volo d’uccelli, l’alzarsi improvviso del vento o un grido che annunciasse la fine della battaglia ancor prima che avesse inizio.

Il sole era ancora basso all’orizzonte, se sole si poteva chiamare la palla oblunga di colore viola le cui radiazioni erano una minaccia per ogni forma di vita. Bisognava fare presto, o sarebbero morti.

«Ila, siamo pronte» ripeté Dena.

Osservò l’amica. Era preparata a tutto, come le migliaia di compagne alle sue spalle, attente, salde, in attesa di un gesto.

Sulla collina di fronte, l’esercito composto di uomini, simile per numero, attendeva immobile. Davanti a tutti stava Milo, il fratello gemello. Avevano iniziato a parlare nello stesso momento e mosso i primi passi insieme. Inseparabili, amici, complici, fino al giorno in cui erano stati costretti a lasciare la Terra e cercare vita altrove.

La legge voleva che fosse solo uno a regnare, ma quale? Con le parole, i ragionamenti, non erano arrivati a nulla e, senza rendersene conto, si erano ritrovati a capo di due eserciti opposti.

Lo scontro era nato perché, un giorno, dopo anni da quando Ila e le sue compagne si erano stabilite in quella landa desolata che ora tutti chiamavano “casa”, Milo aveva occupato la zona, proclamandola come sua. Aveva le sue motivazioni per farlo, almeno a parer suo: prima di tutto era un uomo e a quel tempo agli uomini spettava tutto e non esisteva donna al potere capace di regnare. Ila era quindi per lui qualcosa di anomalo, fuori dalla normalità e la cosa non gli stava affatto bene. Per questo cominciarono una serie di scontri che si protrassero per anni ed anni fino ad arrivare, finalmente, alla battaglia finale.

Ila era sempre stata più riflessiva e creativa  di suo fratello, ragazzo da sempre vivace e dall’animo ribelle, e anche in quel momento di tensione la sua indole si palesava. Prima che fosse annunciato il segnale di guerra Ila ripensò alle storie che la madre raccontava a lei e al gemello quando erano dei bambini, poco prima di andare a dormire. Le tornò alla mente quel periodo, in cui erano già un po’ più grandicelli per comprendere racconti più elevati, in cui la mamma raccontava loro i miti greci. I due ragazzi li adoravano e riuscivano sempre a trarne dei ragionamenti e degli insegnamenti. In particolare quel momento le ricordava un episodio de “I sette a Tebe”, in cui due fratelli di pari età, Eteocle e Polinice, erano costretti a scontrarsi per prevaricare l’uno sull’altro. Questo perché appartenevano alla stirpe maledetta di Eracle, figlio di Laio e Giocasta e quindi uno dei due doveva morire per forza per sconfiggere la terribile maledizione. Entrambi erano a conoscenza di questo loro destino tragico, si ricordava Ila. Sapevano che uno dei due doveva, per necessità, morire.

Ecco, Ila in quell’attimo che precedeva la battaglia, si sentiva esattamente come uno dei due fratelli. Ora era in trappola, non poteva ritirarsi, lo scontro fratricida era alle porte. Fin da piccola la madre le aveva sempre detto di non farsi mai mettere i piedi in testa da nessuno, di non farsi ostacolare nel perseguire i suoi obiettivi.

«In particolare», sottolineava sempre sua madre, «fa’ che nessun uomo al mondo intralci mai il tuo percorso, non sottometterti ma lotta sempre per ciò che ti spetta»: queste parole da sempre le ronzavano in testa e allora Ila capì perché stava lottando e si rese conto che la vittoria doveva essere sua.

Era lei che si era stabilita, con il suo popolo di esuli, in quella terra disabitata da millenni. Era lei che aveva fondato una nuova città e che si era occupata, aiutata dai suoi ufficiali più fedeli, di costruire una terra degna di esser chiamata tale. Il fratello e il suo esercito non erano che degli invasori di fronte ad Ila e alla sua gente. Quindi il regno spettava a lei, non c’era altra spiegazione, doveva essere suo e basta. Era lei l’unica e legittima regnante. Peccato che avesse collegato i puntini troppo tardi e avesse fatto valere le sue ragioni per via diplomatica: ormai si trovavano lì, sul campo di battaglia, pronti allo scontro.

Da un momento all’altro un colpo di pistola avrebbe bucato il silenzio tombale e migliaia di urla e scontri sanguinari avrebbero occupato la scena. Serviva un gesto plateale, qualcosa di memorabile e incisive per dare avvio alla battaglia. Ila con un balzo scese dal cavallo e piombò a terra. Era nella prima schiera di combattenti, quindi avanzò lentamente. Alle sue spalle sentì dei mormorii e infine l’urlo della compagna Dena che la esortava a tornare indietro, preoccupata per la sua morte imminente. Ma Ila sembrava non sentire e continuò a procedere per la sua via. Camminò ancora fino ad arrivare dinanzi a quella linea che solcava il terreno e che divideva i due eserciti contrapposti. Infine si mise lì, proprio al centro e depose l’arma che teneva sulle spalle. Guardò il fratello che stava sul cavallo di fronte a lei fisso negli occhi, con sguardo quasi supplichevole e gli tese la mano, in segno di pace. A quel punto l’esercito maschile era sul punto di attaccare, essendo la preda così facile da colpire. Ma Milo, con un cenno della mano, li fermò e scese anche lui dal cavallo. Corse incontro alla sorella e le strinse la mano. Poi entrambi non resistettero, e dopo tanti anni di guerre in cui si erano fatti null’altro che male reciproco, si abbandonarono a un trascinante e tanto desiderato abbraccio.

Nessuna guerra doveva essere combattuta, nessuno dei due doveva vincere sull’altro, né Ila né Milo. Che morale ci sarebbe stata, altrimenti? Fu in quel momento che finalmente dopo tanti anni in cui si era sempre sentita un livello sotto il fratello, che Ila capì finalmente il concetto di parità, di uguaglianza di genere. Loro erano uguali, lo erano sempre stati fin dalla nascita e non solo fisicamente ma in ogni altro ambito. Erano gemelli, avevano condiviso lo stesso liquid amniotico. La madre, costretta a tirarli su da sola, li aveva sempre cresciuti ed educati allo stesso identico modo, istruendoli con gli stessi valori, trasmettendo loro gli stessi principi e ripetendo sempre le medesime raccomandazioni.

«Cosa avrebbe detto la mamma», chiese Ila a Milo, «vedendoci in questa situazione terribile?»

Milo fece un sospiro prima di parlare e poi le rispose: «Ci avrebbe detto che stiamo sbagliando e che questo conflitto va contro tutti i principi che ci ha trasmesso, perché la guerra non li rispecchia affatto. Ecco cosa ci avrebbe detto…»

Milo non era mai stato violento, dopo aver accumulato così tanto potere però qualcosa in lui era come cambiato radicalmente e non sembrava più lo stesso ragazzo. Ma vedendo la sorella davanti a lui, quasi piangente, che gli tendeva la mano, non aveva saputo resisterle e non aveva esitato che un attimo a riavvicinarsi a lei.

Dopo questo episodio i due riuscirono a trovare un equilibrio, organizzandosi in modo tale da far vivere i loro due popoli insieme, senza distinzioni. Ila, in quanto regnante assoluta, aveva accettato il popolo del fratello come suo e insieme a lui avevano steso una sorta di carta dei diritti che li tutelasse entrambi. Grazie alla pubblicazione di questi diritti adesso la figura femminile aveva finalmente assunto un’altra considerazione rispetto al mondo da cui entrambi i gruppi provenivano. Se prima alle donne non era concesso svolgere le stesse mansioni di un uomo, adesso ne avevano il pieno diritto in quanto esseri umani: una donna al potere era quindi qualcosa di assolutamente possibile e Ila andava fiera del suo ruolo, che aveva difeso con le mani e con i denti, diventando un simbolo.

Oltre a questa carta seguì poi un rifacimento di tutta la città, con la formazione di vere e proprie vie e piazze. E la prima di tutte, per volere di Milo, fu intitolata proprio “Via Ila”.

 

Emma Boschi / Liceo Classico Galileo di Firenze – Classe 4G