La speranza di un solitario ancora più solo – Racconto

Si svegliò che il sole era già alto, filtrava attraverso il tessuto delle tende e diffondeva un leggero chiarore in tutta la stanza. Guardò l’orologio: le 10:30. In un giorno normale sarebbe stato tardi, ma tanto in quarantena che aveva da fare? Passava le sue giornate chiuso in casa a guardare la TV, i notiziari, vecchie partite rimandate in onda; ogni tanto leggeva qualcosa; provava a cucinare pizza, pasta, torte; tutto questo per ingannare il tempo che non passava mai e per riempire giornate vuote con una parvenza di vita, senza la minima possibilità di uscire.

Sua sorella aveva provato a smuoverlo, a convincerlo a far qualcosa di costruttivo, dedicarsi a qualche hobby o passione nascosta che non aveva mai avuto il tempo di assecondare; gli amici avevano fatto con lui qualche videochiamata per strapparlo dall’eremitaggio verso cui stava lentamente scivolando. Ma egli sentiva un buco dentro ingrandirsi ogni giorno, con il rischio che prima o poi sarebbe diventato troppo grande. Sapeva che doveva cercare di reagire, ma non era facile. Una parola da un po’ di giorni lo assillava, una parola che aveva sempre rifuggito convinto che fosse lontana da lui, ma ormai non sembrava più così. Depressione. Non era ancora depresso, ma ogni giorno di scialba solitudine che passava era un passo in più in quella direzione. Da tempo era molto solo, ma aveva sempre trovato un modo per trascorrere lietamente le giornate e rendere la sua vita da solitario ma senza sentirsi solo: la natura. Amava andare al parco e rimanere ore, come incantato, a guardare il particolare riflesso che si creava dalla luce solare che attraversava le foglie di un vecchio leccio; o passeggiare per la campagna seguendo il corso di un piccolo ruscello fino a vedere il sole tramontare sui campi dorati di grano e sulle scure montagne dell’Appennino, mentre il cielo si colorava di strisce rosa e arancio. Ora non gli restava che qualche aiuola tra due grigi palazzi. Troppo poco…

La parte migliore della sua giornata era quando si affacciava alla finestra e guardava fuori, non importava quale fosse il tempo. Sentiva un senso di libertà scorrergli nelle viscere del corpo; guardava gli uccelli in volo che si posavano sui tetti, sui cartelli stradali, sulle macchine spente da giorni e immaginava di essere uno di loro e di poter volare via, libero, oltre quella desolazione e solitudine, oltre le grigie strade vuote e silenziose. Aveva sempre sognato di poter volare, per superare i limiti umani e solcare il mare come il gabbiano Jonathan Livingston, ma ora più che mai sentiva questo desiderio ardergli dentro e consumarlo tutto. Sentiva un macigno sopra il cuore che l’opprimeva e lo trascinava ogni giorno più in basso, verso il nero baratro del dolore. Aveva bisogno di un nuovo scopo, un obiettivo, qualcosa che desse un senso alla sua esistenza sempre più pallida che piano piano svaniva, almeno in quei giorni così duri.

Quel giorno passò come tutti gli altri senza che succedesse niente, nell’apatia più totale. Si sentiva come uno di quei personaggi delle fiabe trasformati in statue di pietra: non provava più emozioni, non sentiva alcun cenno di brezza sulla sua pelle o qualche soffio caldo sul suo collo, sapeva solo che il suo cuore si stava congelando.

Erano quasi le sei quando andò a sedersi sul divano a crogiolarsi nel suo abbattimento. Stava sprofondando ancora una volta nello sconforto, quando sentì una musica giungere al suo orecchio. Non sembrava giungere da troppo lontano e, non avendo di meglio da fare, andò al balcone per vedere cosa fosse. Appena uscito una raffica di vento gli scompigliò i capelli e portò una piacevole melodia. La musica veniva dal palazzo di fronte, sebbene non avesse capito da quale appartamento, ma non importava. Si guardò intorno e vide che da tutte le abitazioni d’intorno tante teste facevano capolino dalle proprie tane, come lui richiamate da quella musica lontana. La canzone finì e da qualche parte prese avvio l’inconfondibile refrain dell’Inno di Mameli; mentre tutto il vicinato era impegnato a cantare in un momento davvero emozionante, alcune persone cominciarono ad appendere dalla terrazza la bandiera tricolore. Prima una, poi due, poi tre e ogni volta il nuovo drappo era accolto da ovazioni di consenso e approvazione. Presto si venne a formare una vera e propria aria di festa, carica d’emozione ed era uno spettacolo sublime vedere tutte quelle strisce verdi, bianche e rosse sventolare al sole basso all’orizzonte. Anche lui sentiva nascergli dentro in fondo all’animo un sentimento che non provava, così vero e autentico almeno, da tempo immane: felicità. Aveva voglia di fare, agire, trasmettere a tutti quella ritrovata allegria tanto sospirata. Rientrò in casa cacciando un urlo e subito dopo riuscì con la chitarra in mano. Non sapeva che canzone avessero messo, non conosceva gli accordi e non suonava quello strumento da anni, ma non gli importava e si mise comunque a strimpellare qualcosa; una fiamma si era riaccesa in lui.

I giorni seguenti continuarono a mettere la musica alle sei e lui si fece sempre trovare pronto con la chitarra in mano e la gola pronta a cantare. Nel resto della giornata aveva ricominciato a chiamar la sorella e gli amici, anche quelli che non sentiva da tanto tempo, poi a leggere con passione, a fare ginnastica in casa e a cercare lavoro, lui, disoccupato da sempre. Aveva insomma ricominciato a vivere. E l’aveva fatto nel momento probabilmente meno adatto della sua vita; ma forse, in fondo, un secchio di acqua ghiacciata è meglio di mille carezze.

Una sera, distendendosi sul letto per dormire, avendo in mente ciò che era successo negli ultimi giorni pensò che in ogni momento, dopotutto, c’è un po’ di speranza.

Davide Agnelli / Liceo Classico Galileo di Firenze, classe 2D