Dentro – Racconto

Sono le 6.37 del mattino e una fastidiosa musichina comincia a risuonarmi nei timpani, facendomi svegliare di colpo. Anche oggi so che sta per cominciare un’altra giornata frenetica, composta dalla solita prevedibile routine. Dopo essermi vestita e aver trangugiato due fette biscottate e un caffè in cinque minuti, mi lavo velocemente i denti e mi lancio fuori casa. Sono fuori. Mi carico saldamente lo zaino sulle spalle e comincio a correre all’impazzata, cercando di non perdere l’ennesimo autobus. Una brezza sottile mi pervade e mi ricorda che sono solo le 7.30 di mattina e io sono già fuori a lottare con la puntualità.  Sto ansimando e il freddo iniziale sembra scomparire. Rallento per un secondo ma poi subito dopo riparto, corro, corro, accelero. Giro l’angolo: eccolo lì, il mio autobus che nel giro di un millesimo di secondo probabilmente ripartirà. Mi lancio in mezzo alla strada, per far sì che non parta per nessuna ragione possibile, vedo ancora gente che sta salendo, “Forse sono ancora in tempo”, mi dico tra me e me. Ultimo tratto, metto un piede sulla superficie del bus: l’ho preso, arriverò in orario. Mi metto le cuffie, alzo la musica e passo in rassegna gli ultimi articoli appena usciti sulla mia app del TGnews e mi aggiorno su cosa sta succedendo nel mondo. Ormai è da giorni che leggo solo di un unico argomento, di cui tanti parlano ma di cui, a mio parere, pochi sanno veramente qualcosa. Sto parlando del famigerato virus che è arrivato da ormai qualche settimana nel nostro paese: il Covid-19. Scorro la pagina dal mio smartphone e leggo che ormai da una settimana le regioni italiane più colpite – Lombardia, Veneto e Emilia Romagna – hanno dato l’ordine di chiudere ogni scuola e università di ordine e grado. Nella mia testa si fanno spazio mille domande: succederà anche nella mia regione? E se il virus continuasse a espandersi sempre più?

Scendo dal bus, varco la soglia di scuola e da quel momento in poi, per altre cinque ore, la parola “Coronavirus” domina le conversazioni di chiunque mi circondi, i miei compagni di classe, i professori, i custodi. Devo ammetterlo, in quel momento non ero spaventata né preoccupata più di tanto. Continuavo a ripetermi che tutte quelle centinaia di persone che per paura di una possibile carestia da Coronavirus andavano a svuotare gli scaffali dei supermercati erano esagerate, affette da una psicosi collettiva.

Ciò che mi aspetta una volta uscita da scuola sarà traumatico, lo so: è mercoledì e mercoledì equivale a corso di chitarra, studio matto e disperatissimo di matematica. E poi so che dopo due o tre ore di studio non resisterò a stare in casa e andrò in palestra, a sfogarmi un po’. E infatti così avviene: alle 19 esco di casa e verso le 8.30 torno, giusto in tempo per la cena. Ormai da quando ogni giorno una nuova notizia sul Coronavirus ci tempesta, io e la mia famiglia ogni sera dopo cena siamo come incollati al telegiornale. Ma la notizia di stasera cambierà il nostro scenario esistenziale per un tempo indefinito, quindi vale la pena stare ad ascoltare. Sto sorseggiando una tazza di infuso bollente quando compare la faccia del Presidente del Consiglio affiancato dal Ministro (anzi dovrei dire Ministra in quanto è donna) dell’Istruzione, pronti a comunicarci qualcosa che predevevamo da giorni ma che in fondo speravamo non si sarebbe mai realizzato: chiusura di tutte le scuole di ordine e grado in tutta Italia fino al 15 marzo. Anche in quel momento forse il mio cervello non aveva realizzato la gravità della cosa, mi spiace dirlo ma è così. Infatti nei giorni seguenti ho continuato a fare quasi come se niente fosse: stavo ovviamente attenta a tutte le norme da osservare, viaggiavo con il mio tubetto di Amuchina nello zainetto e cercavo di limitare  il più possibile i contatti con gli altri, stando  a distanza. Ma nonostante ciò continuavo ad uscire di casa e questo perché non ero ancora entrata nell’ordine di idee che fuori non era più un posto dove stare. È stato tre giorni dopo, mi pare fosse un lunedì, dopo aver seguito Conte in diretta mentre imponeva a tutti noi italiani restrizioni ancora più rigide come la chiusura di qualsiasi attività eccetto alimentari e farmacie. Sì, probabilmente sono state quelle parole a farmi valutare con più razionalità la situazione e, se fino ad un attimo prima ero fuori, da quel giorno ho deciso di barricarmi in casa.

Oggi è passata una settimana da quando è iniziato il mio “periodo dentro”, completamente diverso dalla mia quotidianità ma penso che ci dovremo tutti abituare.  Da quel fatidico giorno al risveglio ho sempre un po’ di angoscia, angoscia di sapere se la situazione sta degenerando, ma anche speranza, speranza che le persone rimangano veramente a casa.  Mi sento come vuota: è difficile da assimilare come tutto il tuo mondo possa cambiare da un giorno all’altro, senza preavviso. No, okay, devo ammeterlo, tutto questo non era imprevedibile, anzi tutt’altro, ma diciamocelo, nessuno di noi pensava che si realizzasse realmente. Non eravamo preparati, almeno io non lo ero.

I primi giorni furono di adattamento, o meglio dire di installazione di tutti i mezzi possibili per comunicare con il mondo esterno. Non è stato assolutamente facile mettersi in testa che vedere i propri cari era ormai vietato per legge e tuttora non è lo stesso poterli sentire solo al telefono. Lo stesso vale per i contatti con gli amici: ci siamo dovuti accontentare delle videochiamate su skype e dei giochini in live su house party per comunicare, e non è comunque lo stesso che farsi due risate dal vivo. Per quanto riguarda la scuola inutile ribadire quanto sia stato lento e difficoltoso il percorso che ci ha permesso di entrare in contatto con i nostri insegnanti e di iniziare delle vere e proprie lezioni online, per quanto possano durare non più di trenta minuti. Aldilà del mondo esterno a noi, con cui ovviamente non siamo in contatto 24 ore su 24 perché altrimenti la nostra connessione internet andrebbe fuori uso, gli esseri umani con cui siamo più in contatto ora sono sicuramente i nostri familiari. Escludendo i primi giorni di adattamento molto stressanti, siamo riusciti a trovare un giusto equilibrio e vivere insieme tutti i giorni per ventiquattro ore consecutive non è poi così male…

Accanto alle notizie che sentiamo ogni giorno dal telegiornale che ci comunicano la gravità della situazione del nostro paese dal punto di vista sanitario in primis, ma anche da quello economico, ve ne sono altre che ci mettono infiniti dubbi in testa. Sto parlando dei continui messaggi che ci arrivano mediante whatsapp da gruppi o contatti vari che diffondono come macchinette notizie a mio parere prive di alcun fondamento scientifico.  Cosa fai quando ti arriva una notizia secondo la quale  in teoria tutto ciò che entra in casa tua e arriva dall’esterno potrebbe essere contaminato da un virus che ti ha costretto in casa a tempo indeterminato? Entri nel panico e, per quanto tu voglia, non puoi ignorarla e quindi cominci a sanificare tutta la casa meticolosamente. Meglio prevenire che curare diceva qualcuno.  A proposito di questa fissa del virus che rimane sulle superfici, penso sia opportuno documentare un fatto che è avvenuto proprio ieri sera poco prima di cena. Prima di raccontare voglio puntualizzare che da quando è iniziata la quarantena andiamo raramente a fare la spesa e che ormai la ordiniamo solo online, per quanto ci sia permesso date le situazioni degli ultimi giorni. Detto ciò, proprio ieri sera ci è arrivata la consegna di una delle tante spese che abbiamo fatto e, senza pensarci mia mamma è rientrata in casa con le scarpe che aveva usato per uscire a prenderla fuori e secondo il criterio di prima ha praticamente contaminato parte della nostra casa. Il problema è sorto però quando io e mio fratello, ignari di ciò, siamo entrati in cucina (zona contaminata) e poi ci siamo diretti in un’altra stanza della casa, contaminando ulteriormente. Dopo esserci guadagnati una bella sgridata, la zona “infetta” è stata completamente sanificata. Sì, okay, forse vi sembrerà assurdo ma sono comportamenti comprensibili in una situazione del genere, che va a degenerare ogni giorno e che sta via via sconvolgendo i nostri piani di vita.

Giorno decimo di quarantena. Sono ben dieci giorni che non metto piede fuori di casa, mi manca l’aria, quella vera, ho voglia di camminare in un prato, anche se sinceramente mi accontenterei anche di varcare una strada sterrata, per non parlare di quanto senta il bisogno del congresso umano, che ormai è solo virtuale. Dopo aver fatto colazione, decido che mi sono stufata e che oggi proverò ad uscire per andare a correre, dotata ovviamente di apposito certificato con su scritta la firma di un genitore che mi autorizza ad addentrarmi nel “fuori”, affermando ovviamente di non essere affetta da niente. Mi vesto in tenuta sportiva, saluto tutti e mi dirigo all’aperto, mondo ignoto che ormai mi sembra di non conoscere quasi più. Sapevo che non sarei andata lontano, mi bastava fare due passi nel parco sconosciuto vicino a casa mia e risalire per le colline in strade sperdute, per poi discendere e tornare a casa. Mi bastava giusto una boccata d’aria, niente di più. Cammino con passo svelto fino ad arrivare all’entrata del parco che però mi sembra un po’ diversa dal solito. Mi avvicino ancora e una bella sorpresina mi attende: il cancello è chiuso e ha un cartello con su scritto “Parco chiuso”. Non ho neanche il coraggio di arrabbiarmi più di tanto perché in fondo, mi dico tra me e me, dovevo aspettarmelo. Torno a casa e cerco di trovarmi un altro modo per ingannare questo tempo infame prima che inizi la lezione di filosofia delle 11. Dovevo trovare qualcosa da fare per rimpiazzare la mia corsa andata perduta nel vento, troncata sul nascere. Scrivo un messaggio alle mie amiche: “Allenamento anticipato?” propongo. Ah, sì, mi sono dimenticata di sottolineare che da quando è iniziata la quarantena io e le mie amiche, per bilanciare la quantità industriale di dolci che cuciniamo quasi ogni giorno, abbiamo deciso di tenerci in forma facendo un po’ di ginnastica in videochiamata, seguendo allenamenti su youtube. Credeteci o no siamo abbastanza costanti, e almeno un’ora di esercizio fisico la facciamo. Ebbene, mi rispondono che sono pronte a questo allenamento mattutino, ci prepariamo e facciamo la nostra ora di movimento, per quanto sia concesso muoversi in una camera di nemmeno 15 metri quadri. Ci attende poi una lezione online che in fondo ho anche voglia di fare, in quanto da quando sono cominciate sono molto più spronata ad ascoltare, perché durando meno di una lezione normale, mi concentro più facilmente.

Penso che questo “periodo dentro”, che poi detto così sembra stia parlando di una prigione, e forse per molti un po’ lo è, durerà tanto, sicuramente più del previsto. Ovviamente mi auguro non sia così, spero che tutti ci stiamo impegnando a rimanere dentro, a non uscire più fuori, a fare della nostra casa il nostro nuovo “fuori”. A molti questo sembrerà del tempo perso, dei mesi irrecuperabili, ma non si rendono conto che nel male spesso c’è una punta di bene e dobbiamo sempre cercare di coglierla. Cominciamo a vedere questo tempo indefinito come quegli attimi, quei minuti che quotidianamente stiamo a rincorrere. Pensiamo alla quantità di volte in cui ci diciamo “Se avessi più tempo…” Beh, adesso il tempo c’è, e anche se non possiamo muoverci andando in un altro paese, per la precisione neanche spostarsi in un altro comune, possiamo fare tanto altro. È giunto il momento di abituarci, di adattarci alla stranezza e alla difficoltà di questa mera situazione cercando di occupare il tempo facendo tutto ciò che ci siamo sempre proposti di fare ma che, per un motivo o per l’altro, non abbiamo mai avuto l’occasione di fare. Non dobbiamo perdere neanche un attimo di questa vita dentro, perché prima o poi la nostra vita fuori ricomincerà e noi saremo là fuori, pronti a viverla al meglio.

Emma Boschi / Liceo Classico Galileo di Firenze, classe 4G