Irgendwann – Racconto

Irgendwann fällt jede Mauer”  recitano i silenziosi mattoni che mi accompagnano verso il piccolo appartamento dove mi aspetta mamma. La brezza di inizio novembre mi rinfresca il volto accaldato dalla stancante giornata di lavoro in fabbrica e l’ovatta in cui pare essersi immersa l’intera città contribuisce ad aumentare l’eco di quelle poche parole tracciate con una bomboletta rossa, insegna luminosa nel grigiore urbano. Pare quasi impossibile non sentirsi esclusi dal mondo, soprattutto qui, fra muri e enormi palazzi che ti coprono l’orizzonte, mentre il sole senza chiedere alcuna autorizzazione scappa fuori da questo microcosmo. Arriva sempre in momenti simili, quella sensazione interiore che parte dallo stomaco per strisciare lentamente fino alla gola e il sudore immediato che pezza (ctrl. macchia?) la stoffa rimasta pulita tutto il giorno; sembra una morsa che ti arresta il respiro e ti sconquassa le membra. Così accelero e quasi corro per gettarmi nel cortile interno al Plattenbauten e ritornare in me; la compagna Schneider mi saluta sorridente senza smettere di spazzare le foglie secche, mentre il piccolo Frank mi corre incontro saltandomi addosso.

“Frank, lascia stare il compagno Weber!”

“Non si preoccupi” le dico, mentre poso a terra il magro corpicino del piccolo Schneider, non senza avergli prima fatto fare un giro su se stesso in aria. Frank ride e corre via, scomparendo dietro l’ingresso del complesso abitativo.

“Come sta Joanna?” domando mentre anch’io mi avvio verso l’entrata. La compagna Schneider non risponde, ma continua il suo lavoro; forse non ha sentito, eppure qualcosa dentro di me suggerisce che abbia preferito non sentire. Chiunque nel Plattenbauten sa della partecipazione di Joanna alle proteste di Dresda, però parlare di quando è tornata a casa, sostenuta da due suoi coetanei, con un ginocchio rotto e un occhio nero, è severamente vietato e i primi a non mostrare alcuna intenzione di violare tale tacito accordo sono proprio i suoi genitori. Cosa l’ha spinta a mettere a rischio la sua vita? Quale mai può essere la ragione dietro una così dilaniante fame di libertà? Probabilmente le stesse domande gravano sulle spalle di tutta la sua famiglia, ma nessuno, a parte lei e i ribelli di Dresda, può avere una risposta. “Irgendwann fällt jede Mauer” ripete la mia mente; sicuramente sarà stato uno dei suoi amici a dipingerla sul muro all’incrocio fra la Hellersdorfer Straße e la Hundersdrafter Straße ed è colpa sua se ora è incastrata nel mio cervello, appuntita e fastidiosa, come un piccolo ago che non cessa di fare pressione sulla mia calotta cranica. O almeno cerco di convincermi che sia così.  Soffoco l’angoscia nella routine: entra in casa, saluta mamma con un bacio sulla fronte, appendi il vecchio cappotto all’attaccapanni nel claustrofobico ingresso dove rimangono anche le scarpe, torna da mamma. I suoi occhi sono immobili, intenti a cercare qualcosa che lei sola sa fra le interferenze dello schermo televisivo; chissà dove si trova adesso, se è chiusa nell’oscurità della sua testa o se là dentro vi è qualcosa di più del monotono brusio della TV. Il linguaggio alieno delle onde radio mi attraversa i pori della pelle, risveglia quel movimento interno che sembrava essersi acquietato e che mi trascina lentamente fuori dalla realtà. Con una mossa repentina spengo la televisione, ottenendo da mia madre solo un mugugno di disapprovazione, ma il silenzio non migliora la situazione, così accendo la radio e mi concentro sulla cena. Taglia la cipolla e rosolala con l’olio… taglia la pancetta e aggiungila alla cipolla… taglia i funghi e gettali anch’essi nella pentola… pela le patate… Il borbottio di mamma è così forte che supera la carta da parati, il cartongesso, il piccolo frigo addossato al muro, il rosolio del grasso sul fuoco e arriva alle mie orecchie. Perché si lamenta? Sono appena le sette e un quarto, solitamente non la faccio mai mangiare prima delle otto. Provo a fare finta di niente, ma il mormorio diventa un lamento, una cantilena e non posso evitare di abbassare la fiamma e correre in salotto, ma non c’è nessuno: porta e finestre sono entrambe chiuse. La guardo con disapprovazione, cercando di trasmetterle la mia stanchezza, la mia ansia, la mia sensazione che più tento di non considerare, più mi si agglomera nella trachea e mi spezza il respiro, ma lei risponde con un gemito ancora più forte, mentre le sue pupille si altalenano fra me e la radio, su e giù. Fino ad adesso non avevo badato alle parole del telecronista che si agitava da qualche parte davanti ad un microfono. Dice qualcosa sul muro, sui permessi, sull’altra parte. Sento le espressioni “libertà occidentale”, “caduta della DDR”, “fine della storia” e poi il grido intrappolato nella mascella di mia madre che esce allo scoperto a cavallo di una lacrima solitaria. Tutto sembra essersi fermato, il respiro di mia madre, la trasmissione radiofonica, il rosolio della cena lasciata sul fuoco; anche i miei pensieri si sono arrestati increduli, insieme a quella morsa che non sale né scende più, ma si è avvolta intorno alla gola e ha interrotto le comunicazioni fra il cervello e i muscoli. Così mi vedo tornare nell’ingresso, rimettermi le scarpe e il cappotto e precipitarmi fuori casa. Le strade, fino ad un’ora fa praticamente vuote, ora straripano di Trabant fumanti che rigurgitano nell’aria il loro respiro velenoso attraverso i condotti di scarico. Mentre faccio lo slalom fra le scatoline di latta ansanti, noto in una di esse la compagna Schneider con il figlio Frank, ma lei non mi riconosce. È troppo impegnata a strozzare il volante e a pensare alle scuse che dovrà fare a sua figlia, perché a quanto pare lei aveva già capito e noi no. Corro e più mi avvicino, più mi manca il respiro, più nella mia testa risuonano le parole del telecronista che si mischiano alle lettere scarlatte dei mattoni.

Ed ecco che lo vedo o almeno lo intuisco: là sotto, soffocato da un’ondata di ragazzi in jeans e felpa che sventolano sopra le loro teste martelli e piedi di porco, simboli di libertà. Una ragazza seduta in bilico sul bordo strimpella un ukulele e le sue parole si confondono con quelle dei suoi compagni, formando una melodia viva e brulicante che lentamente scioglie quell’orribile morsa e mi permette di prendere un bel respiro. L’aria sa di smog, di erba e di sudore, con una leggera punta di alcool. È questa l’aria che si respira là fuori?

Una marea di gente nuova inonda la strada e un uomo sulla trentina con la barba mi abbraccia, tirandomi una pacca sulla spalla. “Wilkommen dentro al nuovo mondo!” mi grida in un orecchio, per poi correre incontro ad un altro con le braccia aperte. Io rimango immobile, con lo sguardo fisso sulla piramide di persone che scavalca quel confine fino a ieri invalicabile, mentre pian piano il cervello riprende controllo di ogni mio muscolo e quella sensazione vincolante abbandona ufficialmente le mie membra. Mi sento scaraventato in un nuovo mondo, un mondo più grande, un mondo che mi sta meno stretto. Sul bordo del mio microcosmo, ormai inesistente, cammina un ragazzo, tenendo l’equilibrio con le braccia aperte, la destra fuori e la sinistra dentro. O la sinistra dentro e la destra fuori?

Dentro, fuori, fuori dentro; un flusso continuo di gente attraversa il muro, che ad ogni persona che passa perde un frammento di intonaco. Una ragazzina simile a Joanna mi viene addosso. “Scusami!” mi urla con un sorriso a trentadue denti, mentre si perde tra la folla. Penso a mia madre intrappolata nella sua testa, dentro casa, con la cena ancora sul fuoco e a quella lacrima solitaria che è fuggita alla notizia della fine di un claustrofobico universo, il suo, il mio, il nostro. Non riesco a formulare più alcun pensiero, non percepisco più alcuna barriera fra me e il tutto e mi abbandono alla miriade di odori, suoni e immagini che mi assalgono mentre sto qui, al confine della storia. “Irgendwann fällt jede Mauer“. Solo questo riesce a ripetere la mia testa e come se fosse stata invocata, la scorgo sui mattoni grigi per un attimo, prima che una folla di giovani gli si avventi addosso con martelli, picconi e piedi di porco.

“Irgendwann fällt jede Mauer”.

“Prima o poi ogni muro cade”.

Alessia Priori / Liceo Classico Galileo di Firenze, classe 4B