La sfida – Racconto

 

Ancora oggi non riesco a dimenticare quelle piastrelle bicolore, una rossa, l’altra grigia e così fino in fondo, giù all’infinito.

Quando mi ritrovai con le mie scarpe nuove da ginnastica, con i led blu nelle suole già scarichi, su quel mare di mattonelle capii per la prima volta cosa significa avere paura. Le ginocchia sembravano cedere sotto la leggerezza del mio piccolo corpo, racchiuso in un piumino rosa troppo largo e blocchi di marmo avevano inghiottito entrambi i piedi, impedendomi addirittura di accavallare il minolo sul pondulo, abitudine che non ho mai perso e che mi ha sempre costretto a comprarmi calzature di un numero in più.

-Vuoi forse tornare a casa? Non sei mica costretta a farlo oggi. Mi sussurrò con tono di sfida all’orecchio, posandomi una mano sulla spalla, senza però riuscire a stringerla come era solita fare a causa dei molteplici strati di piuma d’oca racchiusi nel guscio impermeabile metallizzato.

Le mie codine si spostarono da destra a sinistra allontanando la vile proposta per quanto allettante. Dovevo farlo o mi avrebbe trattato per sempre come una bambina e io detestavo sentirmi piccola, nonostante il mio metro e trenta mi costringesse ad assumere una prospettiva in cui anche una poltrona si presentava come una sfida.

– Allora deciditi prima che faccia buio. Non voglio tornare a casa tardi…

Così dicendo mi avvicinò la bicicletta grigia da dove quella mattina stessa papà aveva tolto le rotelle. Sotto la calda luce del tardo pomeriggio mi parve Tullio (il vecchio gatto a tre zampe del condominio) quella povera vecchia bici spenta che, amputata, tentava di stare in piedi barcollando ora a destra ora a sinistra, mentre la sua mano la teneva dal portapacchi.

Il mio sguardo corse per il breve tragitto pianeggiante per poi interrompersi laddove la terra sprofondava e gli alberi diventavano più bassi. Il giardino dei trenini era solo un parchetto con un paio di altalene ricavato in un avvallamento del terreno dietro ai palazzi che gli facevano ombra, ma doveva la sua fama a due elementi senza i quali sarebbe diventato un semplice pascolo per gli innumerevoli cani che abitavano in zona: i due treni di legno verniciato, di due vagoni ciascuno, che correvano paralleli a descriverne il perimetro e l’immensa discesa da percorrere per accedervi, sufficiente a tenervi distante tutti gli anziani della zona che ne avrebbero fatto volentieri un circolo all’aperto di burraco.

Presi un respiro profondo, riempiendomi i polmoni di aria frizzante: dovevo affrontarla. Ora o mai più. Posai le mie piccole mani, irrigidite dal freddo, sul manubrio e mi sedetti sullo scomodo sellino, tenendo il piede destro a terra e il sinistro sul pedale, come le avevo visto fare più volte.

– Allora, io ti spingo per darti il via, poi, quando sei partita, ti lascio. Ricordati di tirare i freni. Tutti e due, sennò ti impenni.

Annuii in silenzio. D’un tratto sembrava che il mio baricentro avesse deciso di abbandonarmi e ogni volta che il mio cuore batteva un colpo, tutto il telaio della bici tremava minacciandomi. Ma non potevo tirarmi indietro. La sentivo, dietro di me, che sghignazzava aspettandosi da un momento all’altro che mi sarei ritirata. E invece no.

Mi chiedo da dove lo presi tutto quel coraggio e quella forza per sollevare anche il piede destro e iniziare a pedalare.

– Oddio. Vai vai vai!

Mi incitava, correndomi dietro. Le mie gambe andavano sempre più veloci e la catena scricchiolava dalla violenza con cui spingevo.

– Ci sei riuscita! Stai andando senza rotelle! – gridò. Ma la sua voce mi giunse da lontano. Le piastrelle scorrevano rapide sotto le vecchie ruote e il vento mi fischiava nelle orecchie.

-Adesso frena! F-R-E-N-A! – mi urlò alle spalle.

Questa volta non la sentii proprio; avevo smesso di pedalare, era la forza di gravità a spingermi avanti. Rosso-grigio, rosso-grigio, rosso-grigio. Non riuscivo a pensare ad altro e non osavo alzare lo sguardo; mentre volavo giù per la discesa tentai di scavare nella mia testa, alla ricerca di qualcosa che mi aveva detto prima che iniziassi a spingere sui pedali, ma fra le scartoffie dei miei pochi e freschi ricordi trovavo solo piastrelle. Rosso-grigio, rosso-grigio, rosso-grigio. D’un tratto il verde, poi, più nulla.

Riaprì gli occhi poco dopo. La prima cosa che sentì fu un dolorosa fitta al lato destro del corpo, la seconda, mia sorella che piangeva.

– Grazie a Dio sei viva, che spavento. Mi hai fatto prendere un infarto! – esclamò vedendomi aprire gli occhi. Cercai di districarmi dal suo abbraccio, che piuttosto pareva una stretta mortale, ma fu inutile. Eravamo in fondo alla discesa; la bici non c’era più.

– Ahi! Mi fai male!

– Fammi vedere, hai delle ferite? Delle fratture? –  mi chiedeva, toccandomi le braccia, accarezzandomi le guance e scrutandomi attentamente la testa, dove le mie codine si erano praticamente disfatte, intrecciandosi a rametti e foglie secche.

Negai scuotendo il capo velocemente.

– Io sono coraggiosa.

-Sì, sì, lo sei! – mi rispose asciugandosi le lacrime.

-Più di te! – dichiarai, approfittando del momento. Non avevo mai vinto una delle sue sfide, ora invece lei avrebbe dovuto accettare che anch’io ero cresciuta ed ero diventata forte.

– Okay… – affermò sospirando, con una chiara nota di seccatura che mi rese ancora più orgogliosa della mia intrepida impresa. Mentre mi toglieva le varie frasche dai capelli le chiesi dove fosse la bici e lei, senza aprire bocca, mi indicò la siepe, dove era fiorito improvvisamente un quarto di ruota e metà portapacchi in ferro.

Un’ingenua risata mi sfuggì dalle labbra, ma presto si rafforzò e si impossessò di entrambe che, abbracciandoci, ci distendemmo sul letto di erba secca, più morbido di una nuvola per i nostri piumini ben imbottiti. Era la prima volta che io e mia sorella ridevamo insieme.

Quando anche l’ultima macchia di tensione fu lavata via, ci guardammo negli occhi:

– Non lo dici alla mamma, vero? –

Ancora una volta, feci segno di no con la testa.

– Vai, aiutami a togliere la bici dalla siepe, che si è fatto tardi – disse sollevata, alzandosi di scatto e incamminandosi.

Io le corsi dietro, facendo scricchiolare i rami e le foglie secche sotto le suole scariche delle mie scarpe. Il fianco destro mi doleva non poco e, quella sera stessa, in bagno vi avrei trovato un grosso livido violaceo, ma non mi importava: adesso mia sorella non mi avrebbe mai più trattata come una bambina…

 

Alessia Priori

Classe 4B – Liceo Classico “Galileo” di Firenze