Dal genio di Kubrick il capolavoro Arancia Meccanica

Il film analizza il concetto di libertà individuale e del ruolo dello Stato attraverso un espediente concreto, quello di una cura miracolosa in grado di eliminare qualunque istinto negativo dalla mente del protagonista. Il prezzo da pagare, tuttavia, non è di poco conto: per liberarsi dal male, occorre rinunciare al libero arbitrio.

Il protagonista viene privato artificialmente della possibilità di scegliere se essere buono o essere cattivo, se vivere in un certo modo o nell’altro ed è proprio l’istituzione, il governo a fare ciò. Allora che cos’è la libertà? Decidere di fare del male non è forse comunque una decisione, per quanto sbagliata sia? Decidere invece di vivere in un certo modo, diverso da quello proposto dalla società, non è forse un modo per scegliere? Ma la vera domanda è: nella nostra società noi possiamo scegliere? O alla fine non siamo altro che delle arance meccaniche?

Proprio questo è il significato del titolo: un’arancia, oggetto apparentemente naturale, in questo contesto appare denaturalizzata, poiché al suo interno presenta un meccanismo ad orologeria, programmato. Allo stesso modo appare, dopo la “cura”, il protagonista, che, all’apparenza uomo, è in realtà un automa della società.

Il film, prodotto nel 1971 dal regista Stanley Kubrick, insignito del Leone d’Oro alla carriera della Mostra di Venezia nel 1997, è tratto dall’omonimo romanzo pubblicato nel 1962 dallo scrittore britannico Anthony Burgess. Il progetto del libro nacque da un’insistente ricorrenza di notizie sull’aumento della criminalità in Inghilterra, e i fautori di questi crimini erano molto spesso dei giovani come il protagonista. Allora che fare? Mandare questi ragazzi in strutture correttive, oppure fare loro un lavaggio del cervello? Infatti gli scienziati di quell’epoca proponevano soluzioni di quest’ultimo tipo e molte persone parevano essere d’accordo.

Il significato di Arancia meccanica si inserisce nel filone distopico, in cui i meccanismi reali sono portati alle estreme conseguenze.

La vicenda si svolge in un futuro non ben definito a Londra. Alex (interpretato dall’attore britannico Malcolm McDowell), protagonista e narratore esterno e onnisciente, è un ragazzo figlio di operai che insieme ad un gruppo di amici (i drughi) passa il suo tempo aggirandosi per la città e commettendo una serie di crimini di varia entità, dal furto allo stupro fino ad arrivare all’omicidio. Compiono violenze senza motivo apparente, spinti da una volontà cieca. L’unica sensibilità che pare rimanere ad Alex è quella relativa alla musica classica, di cui è un vero estimatore.

Dopo l’ennesimo crimine che sfocia in un omicidio, i suoi compagni lo incastrano e Alex viene preso dalla polizia. Per evitare 14 anni di carcere il ragazzo decide di sottoporsi ad un programma di riabilitazione sperimentale chiamato Cura Ludovico. Questa cura scientifica lo costringe, ogni volta che sente l’impulso violento, a fermarsi a causa di una reazione di rifiuto fisica che gli provoca talmente tanta nausea da non poter proseguire con la sua intenzionalità criminale.

Dopo la cura Alex è reintrodotto nella società ma appare come un soldatino che non esercita più il libero arbitrio. La società in cui ritorna non appare affatto benevola nei confronti del ragazzo nonostante egli ora sia di fatto completamente innocuo. I personaggi che via via incontra e ai quali lui ha provocato dolore, si accaniscono contro di lui.

Il vero messaggio è nel finale: all’interrogativo su una possibile redenzione dalla violenza, pur nella conservazione della propria individualità, Kubrick risponde alla questione con un secco rifiuto. L’istinto umano, la sua naturale inclinazione ferina non possono essere soppressi: sono destinati a restare latenti nella fantasia e nelle azioni potenziali dell’uomo.  Nel bene e nel male Alex rimane se stesso.

Ad attirare l’ attenzione sono i costumi dei Drughi, un incrocio tra la divisa di un poliziotto e di un supereroe perverso, colorati di bianco, colore che rappresenta la purezza ma anche l’asetticità, la malattia e il cadavere. Si tratta quindi di un bianco “degenerato”; esempio ne è anche il latte, che è bianco e trasmette sicurezza, ma in realtà è degenerato, poiché all’interno vi sono delle droghe.

Il design e la scenografia sono un altro punto interessante. Il film è pieno di riferimenti alla pop art e alla optical art. Inoltre presenta chiari riferimenti sessuali, dalla scultura in ceramica della signora anziana, alla forma dei gelati delle due ragazze che Alex incontra al negozio di dischi.

Per quanto riguarda le musiche, il film utilizza brani di musica classica molto conosciuti: di Rossini è utilizzata l’ouverture del Guglielmo Tell e le note della sua famosa opera La gazza ladra; di Beethoven, il secondo e il quarto movimento ,l’Inno alla gioia, dalla Nona sinfonia. Infine troviamo la musica per il funerale della regina Maria di Purcell. Kubrick propone una meditazione sulla musica “alta”, qui dissacrata da atteggiamenti impertinenti.

Nonostante Kubrick intendesse condannare la violenza invece di fomentarla, lettere minatorie dalla Gran Bretagna arrivarono a lui e alla sua famiglia, tanto da indurre il regista stesso a chiedere e ottenere dalla Warner Bros il ritiro della pellicola dalle sale locali. Nella maggior parte dei paesi del mondo, Italia compresa, il film fu vietato ai minori di 18 anni per le numerose scene di efferata violenza. In Italia il provvedimento di divieto ai minorenni durò fino al 1998, quando una sentenza del Consiglio di Stato lo abbassò ai minori di 14 anni rendendo così il film fruibile anche sul piccolo schermo.

Sicuramente molti di voi avranno già visto questo film, in caso contrario, consiglio vivamente di farlo. Si tratta di uno dei più grandi capolavori della storia del cinema, una di quelle pellicole che non si possono non vedere; e sono certo che come me non riuscirete a staccare gli occhi dallo schermo per l’intera durata del film ma, a differenza di Alex durante la Cura Ludovico, non ci sarà nessuno a costringervi a farlo, semplicemente non potrete farne a meno.

di Riccardo Vicoli