La morte: un dono divino

E se fossimo immortali? Proviamo, anche solo per un fugace istante, a ipotizzare che la nostra caduca vita non abbia mai fine. Immaginiamo che, in una notte di luna piena, un profetico raggio di luce indefinito e vago decida di scendere con coraggio dal soffitto sopra il nostro letto e, con divina sfrontatezza, sussurrarci in un orecchio: «Caro uomo, giungo nel bel mezzo del tuo sonno per annunciarti che domani, al risveglio, non sarai più la fragile creatura che sei stato sino a oggi: quando aprirai gli occhi ti sarai trasformato, senza provare alcun dolore, in un essere immortale, che non potrà morire in alcun modo, neanche suicidandosi». Quale sarebbe la nostra reazione a tale notturna e straordinaria rivelazione? Quasi certamente saremmo assaliti da un incontenibile entusiasmo, ma poi, la nostra gioia iniziale verrebbe subito divorata da una soffocante inquietudine, così come la vecchiaia divora la giovinezza e il vizio soffoca la virtù. Lo stupore di possedere una vita immortale ci farebbe inesorabilmente passare dall’ebbrezza di aver raggiunto le luminose vette delle montagne più alte, all’angoscia di precipitare sui bui fondali degli abissi più profondi. Disorientati, cercheremmo di capire se anche ad altri uomini e donne è accaduta la nostra stessa sorte. Indagheremmo, speranzosi, tra le persone a noi più care. Ma neanche rintracciare qualche compagno di sventura, impedirebbe alla prospettiva dell’immortalità di tramutarsi in un’Alcatraz esistenziale, una prigione d’angoscia. La vita, senza morte, diventerebbe una desolata fortezza nel deserto, in cui gli uomini attendono invano, giorno dopo giorno, l’arrivo degli Spartani invasori per dare un senso al loro infinito esistere. Senza però che gli Spartani arrivino mai. Cosa ne sarebbe del nostro continuo e umano soffrire, amare, viaggiare, gioire, piangere e gridare, se non avessimo la responsabilità di cercare l’abito adatto da indossare per l’appuntamento con la morte? Nell’ineluttabilità del morire risiede la possibilità di dare un senso al nostro vivere, e proprio nel tempo finito che abbiamo a disposizione per scorgerne il senso, la cosa fondamentale è il saper scegliere e agire. L’esistenza può assumere una prospettiva di significato a partire dalla morte, un uomo è tale proprio perché è consapevole di vivere sospeso tra due soli estremi: del nascere e del morire. E proprio perché incatenati tra la nascita e la morte, possiamo reputarci delle proiezioni di Prometeo e provare a rubare il fuoco agli dei, dando così un senso alla nostra fragile esistenza. Vivere significa prendere decisioni, sapendo che esse sono valide solo perché c’è la possibilità di essere catturati da Zeus e essere imprigionati per l’eternità. Nel mondo attuale, siamo tutti un po’ Ulisse, per la nostra sfrenata voglia di realizzarci; Ulisse, colui che sfida la forza divina oltrepassando le Colonne d’Ercole, il limite insuperabile. Vivere è dunque un grido la cui unica eco è il morire. La morte smaschera l’inganno di ogni sorta di Truman Show, gli abbagli del Grande Fratello, fa crollare la Las Vegas delle emozioni convenzionali e ci costringe all’autenticità del vivere, stimolandoci alla ricerca della nostra Itaca, che dà il senso alle cose del mondo, alle cose terrene. Il bello è tale perché va ricercato ma può simultaneamente svanire e perire. Morire, pertanto, è l’atto più puro del nostro vivere, in quanto ci rende ricercatori della verità e ideatori di quello che vogliamo essere. L’eternità e la perfezione sono nemiche della vita. Chi è eterno non può amare, perché amare significa relazionarsi ed emozionarsi nel tempo, significa avere il coraggio di compiere scelte delimitate da un inizio e da una fine. Per vivere bisogna essere disposti a morire. Per questo dobbiamo ringraziare gli dèi di averci liberato dalla prigione dell’immortalità e donato la morte. La vita intera è un gioco che ha come prerequisito fondamentale l’ineluttabilità della morte. Dunque, se è vero che la vecchiaia è negazione della giovinezza, come sostenuto dal poeta elegiaco greco Mimnermo, essa è anche fonte di saggezza, ideale espresso dal politico, giurista e poeta ateniese Solone; proprio come la vita ha un senso in quanto relazionata alla morte, specchio dell’esistenza, così la giovinezza sarebbe futile e banale se non ci fosse la vecchiaia a sorreggerla.

Cammarota Francesca

3A Liceo G.B. Vico Napoli