Integrazione

L’ultima polemica in questi giorni è il dibattito sulla necessità di riconoscere lo “ius soli”, cioè la concessione della cittadinanza a chi nasce in Italia. È una questione che si trascina da decenni e non trova ancora soluzione, tanto che i figli di molti stranieri che giungono nel nostro paese hanno la cittadinanza italiana solo dopo i diciotto anni, purché residenti in Italia legalmente e ininterrottamente, anche se sono stati cittadini modello, i più bravi a scuola e sono iscritti alle università italiane.  Non riusciamo ad accettare insomma l’integrazione, che non consiste soltanto nel riconoscimento della cittadinanza, ma implica un significato più ampio e profondo. I neri negli Stati Uniti ad esempio rivendicano una sostanziale integrazione che elimini concretamente e sostanzialmente le differenze sociali, culturali, economiche derivanti da concezioni razziste nate da cause storiche.

In Italia non arriviamo a manifestazioni di protesta simili a guerriglie urbane, ma questo non significa che sia avvenuta o avvenga una vera integrazione, cioè l’accettazione dell’altro in una dimensione di vera fratellanza, come predica papa Francesco. La prima accettazione riguarda noi stessi, cioè noi ragazzi che a volte non ci sentiamo abbastanza amati o in classe o nel gruppo che frequentiamo, ma in realtà non siamo disposti a riconoscere i nostri limiti, le nostre incertezze e soffriamo le confusioni proprie dell’età. Se oltre alle nostre qualità riusciamo a riconoscere le nostre difficoltà, allora siamo in grado di riconoscerle anche negli altri e quindi possiamo rispettiamo le loro individualità, come pretendiamo che siano rispettate le nostre, perché in una società inclusiva ogni persona ha il suo posto.

Questi ideali non sono realizzati, nonostante tutti o quasi siano d’accordo sulla necessità di perseguirli. Basta ricordare lo sfruttamento sistematico degli stranieri nell’agricoltura e in alcuni settori dell’industria, il cui lavoro è fondamentale e necessario alla nostra economia, come dimostrano gli studi statistici degli esperti.

Come possiamo superare le barriere che costruiamo per difenderci dagli altri invece di accoglierli?

La famiglia non sempre è capace di educare all’integrazione, perché condizionata da idee politiche o da problemi economici, sociali e soprattutto culturali, anzi a volte è essa stessa che comunica pregiudizi e stereotipi e rifiuta che i propri figli si aprano al concetto di integrazione. Allora il compito e il dovere della scuola diventa fondamentale. Nella classe infatti è raccolto un campione di società, dove anche nel caso di un determinato livello sociale si verifica sempre qualche differenza tra i componenti, non solo per la presenza di eventuali elementi problematici, ma anche perché c’è sempre il ragazzo timido o complessato o poco socievole e per questo motivo a volte escluso o emarginato.

Certamente i compagni hanno il compito di “integrarlo” ma molto è affidato alla sensibilità e alla responsabilità dei professori per crescere una classe in cui la fraternità, il sostegno, il rispetto, la collaborazione, insomma l’amicizia nel senso profondo diventi l’esempio di una società solidale nel futuro.

Andrea D’Elia 3C