THE TREE OF LIFE: CAPIRE IL CAPOLAVORO DI TERRENCE MALICK

Nel 2011 usciva nelle sale The Tree of Life, quinto lungometraggio di uno dei più grandi (ma anche divisori) registi della nostra epoca, con un cast di tutto rispetto, che annovera tra le proprie fila Sean Penn, Brad Pitt e Jessica Chastain. Nello stesso anno avrebbe poi vinto la Palma d’oro per il miglior film al Festival di Cannes, suscitando non poche polemiche. Il grosso delle critiche arrivò innanzitutto dal pubblico che, messo davanti ad un’opera senza dubbio molto complessa e che necessita di essere vista più e più volte, non seppe riconoscere quello che è un capolavoro senza tempo.

Riassumere la trama del film non è affatto facile, poiché non è la trama, intesa nel senso più classico, a dare grandezza a quest’opera. Volendo ridurla all’osso e cercando di coglierne gli aspetti fondamentali si potrebbe azzardare ad una sintesi di questo tipo: la storia segue la vita degli O’Brien, tipica famiglia di ceto medio, cristiana, degli anni ’50, fino a quando essa non vede sconvolta la propria esistenza dopo la notizia della morte di uno dei tre figli. Il tutto, però, non viene raccontato attraverso una struttura classica, ma con un montaggio fitto di salti temporali e di scene perlopiù simboliche. Questa scelta stilistica è, molto probabilmente, alla base dell’avversione nei confronti del film, ed è talmente ostica che più di qualcuno si è domandato se la pellicola abbia davvero un senso. Il punto di partenza, quindi, sarà proprio cercare la risposta alle seguenti domande: The Tree of Life ha un senso? E se sì, quale?

La risposta alla prima domanda è senza ombra di dubbio: assolutamente sì. Nel film si può individuare un senso in praticamente ogni scena, siamo ben lontani dai lavori di Lynch. Ma allora cosa vuole comunicarci attraverso quest’opera il suo autore? Malick, pregno di cultura filosofica, mette in scena non tanto dei personaggi (alcuni di essi non hanno neanche un nome) ma delle idee, delle figure che incarnano dei concetti, e questo ci è chiaro fin da subito. Nei primi istanti ci viene spiegato, riprendendo Tommaso D’Aquino, come esistano due vie per l’essere umano: la via della grazia, fatta di amore, passione e pace, e la via della natura, fatta invece di violenza, odio, invidia e cinismo. La grazia è rappresentata dalla madre (Jessica Chastain) e da uno dei figli (lo stesso che, come si può intuire dai caratteri autobiografici del film, si suiciderà a soli 19 anni, seguendo il destino del fratello di Malick) mentre la natura è impersonata dal padre (Brad Pitt) e da un altro dei figli, Jack (Hunter McCracken da giovane, Sean Penn da adulto), che è l’effettivo protagonista della storia. Jack in realtà, è un punto intermedio, poiché il suo animo è in conflitto tra la grazia e la natura, il che lo spinge verso un turbamento interiore ed un vuoto esistenziale, fino al finale, dove, ormai adulto, riabbraccerà la retta via.

Il tema fondamentale del film è quindi il senso stesso della vita, e quale sia il modo migliore per affrontarla. Perché essere buoni e amare se ciò non ci ripaga, se tanto verremo colpiti ugualmente dalla sofferenza? Dov’è Dio e perché lascia che tutto accada sotto i suoi occhi, anche il male? Questo è ciò che i personaggi si chiedono, quasi sempre con dei voice-over, in modo continuo, in particolar modo la madre, che se in un primo momento ribadirà la sua incrollabile fede, in seguito alla morte del figlio si ritroverà a mettere in discussione la bontà divina. La donna diventa quindi una versione contemporanea di Giobbe (non a caso il film si apre con un passo tratto dal Libro di Giobbe), l’idea di un individuo giusto ma paradossalmente agonizzante. Il destino interiore del padre non è, però, migliore, poiché si rende conto, dopo la tragedia, di aver sprecato il tempo della propria vita dietro a cose a conti fatti insignificanti (il successo professionale ad esempio), e di aver non solo trascurato le persone che amava, ma di averle danneggiate. Questo perché la via della natura porta al rimorso ed alla perdita dell’istante vitale che ci dà la felicità, come lui stesso ci dice in un suo monologo ispirato ad un dialogo de I Fratelli Karamazov:

Volevo essere amato perché ero importante, un grande uomo…ma non sono niente, guarda lo splendore intorno a noi…alberi, uccelli…ho vissuto nella vergogna, ho umiliato lo splendore e non ne ho notato la magnificenza…che uomo stolto”.

Non viene presentata una vera e propria soluzione, molte domande restano senza risposta, in quanto è proprio il pensiero e la riflessione interiore la base di fondo del film. I meccanismi che muovono il mondo rimangono per noi un mistero, la sorte ci appare continuamente ingiusta, e tutto ciò che possiamo fare è trarre il meglio da ciò che ci viene dato.

Malick tenta quindi, seguendo le orme di Sant’Agostino, di creare una biografia non basata sugli eventi, ma una biografia spirituale, che traccia il percorso dell’animo umano nell’esistenza. Il superbo utilizzo dell’arte cinematografica, grazie al suo stile inconfondibile e al lavoro del gigante della fotografia Lubezki, rende questo film un’opera imperdibile ed indimenticabile, che in alcuni momenti tocca la perfezione.

Francesco Del Sette 4D cl