“I soliti sospetti”. Recensione di Guido Scaccianoce

« I Soliti Sospetti » è un film del 1995 diretto da Bryan Singer, vincitore di due premi Oscar nel 1996 per la migliore sceneggiatura originale e il miglior attore non protagonista, andato a Kevin Spacey.
Io lo considero uno dei migliori film thriller in circolazione, capace di sorprenderti con intrecci continui della trama ed eventi imprevedibili, tra cui il colpo di scena finale che è e sarà per sempre il migliore del cinema crime .
Roger “Verbal” Kint è apparentemente l’unico sopravvissuto dell’esplosione di una nave sospettata di trasportare droga, nel porto di San Pedro, Las Vegas.  La storia viene presentata come la ricostruzione della deposizione di “Verbal” e si alterna con scene della deposizione stessa. Dunque, gli avvenimenti del film sono interamente raccontati dal delinquente, interrogato dal detective David Kujan.
Secondo la testimonianza di Verbal, che si è guadagnato questo soprannome per sua una certa predisposizione ai lunghi monologhi, il “dream team” della New York criminale si aggrega durante un confronto all’americana convocato dalla polizia per arrestare il responsabile di una rapina. Nonostante le reticenze di Keaton – un ex- poliziotto corrotto deciso a ripulirsi la fedina penale – i cinque si accordano per tentare un colpo: il successo dell’iniziativa porta i criminali a Los Angeles, dove sono intercettati dall’avvocato Kobayashi che commissiona loro un colpo da 91 milioni di dollari. Alle spalle dell’operazione c’è il misterioso Keyser Söze, un potente e folle boss di origine turca che nessuno ha mai visto in faccia.
Chi è Keyser Söze? Questa è la domanda che ci accompagna per tutto il film. “I Soliti Sospetti” gioca tutto su questo, sul mistero che avvolge l’uomo che senza farsi vedere, tira i fili della storia. Sin dal primo cenno alla figura del boss – infatti – lo spettatore è naturalmente portato a interrogarsi sulla sua identità, sovrapponendosi con la figura dell’agente Kujan, l’attento uditore della confessione di Verbal Kint.
Lo sviluppo della trama cosi come la sua premessa, è di alto livello, con un crescendo emozionale che va di pari passo all’attesa della chiusura del cerchio. Un bel finale, infatti, può riscattare un film mediocre o rendere memorabile uno dall’ottimo svolgimento.
Avvincente e memorabile nella sua prima visione, “I soliti sospetti” guadagna un valore diverso alla seconda vista e in quelle successive, in cui si riescono ad apprezzare maggiormente le sfumature interpretative e registiche.
Un crime drama sempre attuale, capostipite di un micro-genere: difatti, il critico Roger Ebert definirà Sindrome di Keyser Soze una certa tendenza degli sceneggiatori al colpo di scena finale, che merita assolutamente di essere visto e rivisto.

Guido Scaccianoce, III C