“Alla mia piccola Sama”

In occasione della Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti di tutte le mafie, Cinemovel e Libera hanno proposto, nel mese di marzo, a tutte le scuole italiane un percorso articolato in 5 mattine di cinema. Le classi potevano collegarsi dall’aula, tramite LIM, o prenotare un posto per ogni studente da casa.

Con la mia classe ci siamo collegati il 16 marzo per assistere al documentario “Alla mia piccola Sama”, prodotto nel 2019 in Gran Bretagna dalla regista siriana Waad Al-Khateab, in collaborazione con Edward Watts.

La storia

La giovanissima Waad è solo una studentessa universitaria quando la sua vita cambia completamente nel 2011. Gli studenti di Aleppo, infatti, vengono spinti dal clima che si respira durante la primavera araba e decidono di protestare contro la dittatura di Bashar al-Assas. Questo loro desiderio di libertà innesca una repressione sanguinosa e violenta, che sfocia presto in una vera e propria guerra civile. Waad, insieme all’amico e futuro marito Hamza, decide di non seguire chi cerca di fuggire dal paese, ma di restare a combattere. Hamza, poi, è l’unico medico rimasto capace di offrire assistenza ai ribelli feriti negli scontri.

Il documentario

“Per Sama” è un docufilm che riprende scene di realtà ricostruendo fedelmente un fatto storico o di cronaca. Proprio per questo penso che questa storia non avrebbe avuto la stessa carica emotiva se fosse stata narrata attraverso un film. La regista, mostrandoci scene di vita reale, intende farci assumere, attraverso la vista, le nostre responsabilità. Vedere anche il minimo dettaglio, ciò che abbiamo sempre e solo guardato distrattamente, usare i nostri occhi come mai prima. Ci sono dei momenti nel documentario in cui la regista non abbassa la telecamera di fronte a nulla e insiste nel mostrarci tutto. Ma è proprio questo il suo gesto di lotta, insistere sul dolore per farci adoperare gli occhi in modo attivo. “Alla mia piccola Sama” ci spinge ad assumerci la responsabilità di testimoni partecipi e mai passivi. Il documentario viene narrato e strutturato attraverso vari flashback che ci portano a comprendere meglio l’evoluzione della storia. Le immagini in presa diretta sono arricchite da alcune impressionanti panoramiche di Aleppo che mostrano la distruzione di una città antichissima e ricca di storia. Il montaggio è serrato e incalzante, in linea con ciò che viene mostrato sullo schermo: una vita in cui i tempi sono dettati dai bombardamenti, la ricerca di un posto sicuro, la paura. Le scene di guerra e quelle delle emergenze nell’ospedale improvvisato gestito da Hamza sono intervallate da momenti teneri, intimi e familiari. Momenti che vedono al centro la piccola Sama, protagonista degli unici respiri di speranza e serenità all’interno del documentario. Momenti che rappresentano un contrasto straziante con le scene di disperazione e di morte violenta di cui, spesso, sono proprio i bambini ad esserne protagonisti. Totalmente assente ogni tipo di colonna sonora. Scelta, a mio parere, coerente con la rappresentazione di una realtà nuda e cruda. Riecheggiano invece i suoni e i rumori della vita quotidiana ad Aleppo. Da una parte il ronzio degli aerei, gli scoppi delle bombe, le urla delle madri; dall’altra le canzoni popolari e le ninne nanne che Waad canta a sua figlia. Sebbene personalmente sia restata colpita dall’intera storia narrata, ciò che più mi è rimasta impressa è l’immagine di un parto sotto le bombe. Una donna arriva in ospedale ferita, procedono a un cesareo d’urgenza. Lo spettatore vede il corpicino senza vita del bambino e prova un senso di disperazione. Poi, in pochi decisivi secondi, i medici riescono a rianimarlo. Se pensiamo a tutte le scene di guerra già viste e le confrontiamo con questa, la differenza sta nell’empatia. La maggior parte degli spettatori non sa cosa voglia dire vivere sotto le bombe, ma ha familiarità con il momento del parto.

Quella del parto è una scena fortissima, ma lo è anche quella della madre che vuole allattare il suo bambino morto. Ogni volta che ripenso al film mi colpisce sempre più, perché quell’immagine è l’essenza dell’incontro tra la vita e la morte. Dalla visione di questo docufilm posso confermare che la storia narrata è un appello che va ascoltato. Il film è una denuncia urgente, una testimonianza fondamentale e inedita, il racconto di un conflitto, di fronte al quale le grandi potenze occidentali si sono voltate dall’altra parte. Ma è anche la dichiarazione di una madre che, senza mai mettere in discussione le sue scelte, si mette a nudo di fronte alla figlia e agli spettatori. Spesso non capiamo fino in fondo la decisione di Waad e Hamza di non fuggire e mettere in salvo la loro giovane famiglia, pur avendone la possibilità. Non lo capiamo e ci sentiamo a disagio, perché arriviamo ad irritarci con chi ha anteposto la causa di un popolo alla sicurezza personale. Tuttavia “Alla mia piccola Sama” non mostra semplicemente quello che ogni giorno continua a succedere in Siria, ma costruisce dentro lo spettatore la consapevolezza che il cinema, anche quando racconta del reale, può superare la violenza, l’arroganza e l’odio. Si osserva, si rimane in silenzio, si gioisce, si comprende qualcosa in più e si attende che qualcuno possa fermare gli uomini che sull’odio hanno costruito la propria forza e la propria legge di vita.

La poesia di Nimā Yushij (poeta persiano contemporaneo) “La mia casa è annuvolata” può essere messa in relazione con questo documentario. La prima differenza che troviamo è che la poesia ha un contenuto cupo, malinconico che non viene reso meno triste, ma al contrario ogni parola va a sottolineare la malinconia, a differenza della storia narrata dal documentario, dove il contesto storico viene reso, in diversi tratti, molto “leggero”.

Conclusioni

Per concludere non posso che ribadire quanto detto all’inizio: quello di Waad Al Khateab è un documento necessario su una guerra evitabile, come ogni conflitto, ma che, come tutte le guerre fin qui documentate, purtroppo esiste. È stato il film più forte e straziante che mi è capitato di vedere sulla terribile realtà che ci circonda e potrei sprecare ancora fiumi di parole per provare a rispondere a tutti i suoi interrogativi senza mai giungere a conclusioni accettabili. Nonostante ciò, sono contenta di aver scoperto e cercato di immergermi in questo racconto che non mette filtri né all’orrore né ai sogni di rinascita.

di Martina Ludovico